Il
paesaggio secondo natura. Jacok Philip Hackert e la sua cerchia,
a cura di P. Chiarini, Artemide editore, Roma 1994, Catalogo dell’omonima
Mostra a Palazzo delle Esposizioni, Roma – 14 luglio- 30 settembre 1994.
Il
giardino inglese della Reggia di Caserta, a cura di F.
Canestrini e Maria R. Iacono, Electa Napoli, Gruppo Mondadori, 2004.
Carlo U. de Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, a cura di
G. Donno, Capone Editore, Lecce 1999. Sulla copertina vi è il particolare de “Il
porto di Taranto”, di P. Hackert.
Piazza
Vanvitelli, Caserta, particolare (manca l’edificio della Banca d’Italia – uno tra
i pochi scampati, tra l’altro – a destra), con Palazzo Castropignano a sinistra,
da: L’Italia fine Ottocento, a cura
di I. Tagliavini, Napoli e la Campania, Edizioni Edison, Bologna s.d., Estratto
da Le Cento Città d’Italia (edizioni
E. Sonzogno), p. 58, ultima immagine in basso.
NB.
Scrivo la Reggia “in” Caserta e non “di” Caserta poiché città e
monumento son due binari che non si toccano mai,
tranne che, in parte, in un determinato momento dell’Ottocento: da quel momento
in poi, le due entità avrebbero preso direzioni ben diverse, opposte direi. “Conurbazione”
ma non civitas, il legame fra Caserta e il più rilevante monumento che
insiste sul suo territorio è nullo, ma non è che con altre “emergenze” di tal
genere i legami siano forti: l’interessante, importante Medioevo locale non è
che sia centrale nell’attenzione, ovvero nel senso d’ “identità” locale. Immagine
“plastica” di tale stato, molto ma molto comune nel Sud, fuori dai grossi centri
che son tenuti, per forza d’inerzia, a tener conto della propria storia –
volenti o non -, è come se fosse intervenuta un “taglio”, un’interruzione di
continuità, della quale non vi è, però, consapevolezza: ne danno traccia sia la
struttura territoriale sia il modo di pensare comune, sciatto oltre ogni dire,
e totalmente separato dalla storia che si è svolta sul territorio che,
comunque, si abita. Caserta è una “diseredata”, cioè nulla la lega con ed alla sua “eredità”, che pure ci sta, insiste
sul territorio, ma non vi è una relazione attiva di rispecchiamento e di
correlazione fra quella eredità e l’oggi delle decisioni concrete. Le due cose
se ne vanno ognuna da sola, da sé, come fossero due binari. Se il termine “diseredato”
si usa oggi per designare il disgraziato, anzi il misero – come tantissimi di questi che scappano da guerre o carestie,
senza importarsi nemmeno di morire tanto sono miseri, appunto -, vi è però un’altra accezione, traslata, che
proponiamo qui: il diseredato “mentale”, colui che non è ricollegato all’eredità
tipica di quel luogo e di quella storia, e che può avere anche molti soldi –
accade spesso, ed è peggio del mero diseredato “migrante” -, ma è un disastro
totale nelle relazioni col luogo dove vive. Comune ad ambedue è una
dislocazione.
Oltre a misero, il
termine “diseredato” ha, come sinonimi, quelli di: miserabile, indigente, nullatenente (nulla generale, direi …), spiantato, derelitto. Ora, si aggiunga a tali termini il qualificativo
di “mentale”, si avrà che siamo circondati da gente che è “spiantata” – come una
pianta che viene estratta dal terreno – mentalmente
(= non ha più radici …), e ch’è “derelitta” – sempre mentalmente -; ed ulteriori sinonimi di “relitto” sono
negletto, trascurato, reietto (= rigettato …), trascurato
ed abbandonato (= Caserta,
perfetta immagine, che la qualifica e non da oggi, costitutivamente trascurata ed abbandonata a se stessa = perfetta metafora
del Sud); per estensione di significato, da “derelitto” si passa poi a:
desolato, squallido, triste. Il contrario
di derelitto dà invece una serie d’immagini positive: curato, assistito, per estensione
di significato: popoloso e fiorente. Insomma tutti termini che denotano che l’ attenzione si rivolge ad un qualcosa qualsiasi, che, dunque, non viene
abbandonato a se stesso. Infine, “derelitto” ha un senso neutro, che denota l’orfano e il trovatello. Ma, di nuovo, cosa
denota pure quest’uso neutro del termine?
Se non che qualcuno è lasciato a se stesso ed è privo di eredità?
In Occidente, e nell’Italia
in particolare, con punte di cupio dissolvi, nel Sud, nel “Südstàn”, come
dico per “ischerzo” – purtroppo il fenomeno è molto serio … -, si è verificato
un rinnegamento attivo della propria eredità. Attenzione: accettare un’eredità non implica per nulla che la si debba
accettare supinamente; anzi, è opportuno averne un punto di vista critico, anche molto critico (del tipo: che cosa, de facto, ha implicato per Caserta che la Reggia fosse costruita
sul e nel suo territorio), ma la si deve
accettare. Questo è il
punto vero. E la si accetta così
com’è, avendone un punto di vista critico,
critica che, a sua volta, non è una serie di parole da imparacchiare a memoria,
ma implica la piena consapevolezza
di quanto ricevuto e la necessità di
farne un uso diverso rispetto al passato, proprio perché
se ne ha un punto di vista critico.
Ma, di nuovo, questo non è negare
l’ eredità stessa. Queste cose qui
son fondamentali per una relazione “sana”, e non nevrotica, con il proprio
passato, che è proprio, appunto, non lo puoi negare. Lo puoi ri-focalizzare, ri-usare
intelligentemente, ma senza forzarlo a dei fini che esso non conteneva, come il
“turismo”, per esempio, sorta di necessità, ma che, se ci sta solo quello, è un’alterazione
profonda ed irreversibile delle finalità che han visto nascere quel particolare
oggetto culturale.
Di tutti questi
fenomeni degenerativi – perché questo sono – non può essere il mero turismo la cura, ma solo il riconcentrare l’ attenzione su ciò che significano
certe cose, con lo scopo di ricostruire
– non dico affatto di “recuperare”,
che non basta per niente, al punto cui siam giunti – una relazione, una continuità
(= traditio!, ecco cosa significa questo termine! …) interrottasi de facto.
Andrea A.
Ianniello
PS. Sulla tematica dell’eredità, cf.
Sull’interesse per la arti marziali orientali, cinesi e, poi, giapponesi, e la presenza, in Caserta, di un insegnamento della arti marziali giapponesi già negli anni Quaranta, cf. Introduzione di F. Palmiero in G. TUCCI “Sul Giappone. Il Bushidô e altri scritti”, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2006, pp. 32-33.
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