lunedì 3 giugno 2013

“Il problema della tradizione demolita”

Il problema della tradizione demolita

In effetti, “l’accumularsi della tradizione” è alla radice di ogni sviluppo culturale. Cultura e tradizione sono legate a doppio filo. Far parte di una cultura significa, in effetti, far parte di una determinata tradizione culturale. Se ne può esser parte direttamente o solo indirettamente, di riflesso, questo è vero. Oggi, però, abbiamo individui, ed in ogni parte del mondo, che non sono parte, neppure indirettamente, di una qualsiasi tradizione culturale. Le reazioni violente, senza scopo apparente, nascono da coloro i quali, sentendo rabbia, anche forse per giustissime ragioni, sono del tutto incapaci di esprimerlo nei termini di una tradizione culturale qualsiasi, per quanto magari compresa solo alla lontana ed indirettamente. Non possono, allora, che esprimere in modo rozzo e bruto lo stato che sentono. Oggi abbiamo movimenti, ma di solo corpo, senza testa. Non può che agire così chi, ormai, non ha più storia. Il problema della tradizione demolita, in effetti, è oggi da ricollegarsi ad un altro problema, esploso negli ultimi tempi: la distruzione della storia. I due fenomeni sono ricollegabili direttamente.
Anche qui, non si è raggiunto il culmine in due giorni. Prima la tradizione è stata posta in questione, poi la si è distrutta con la globalizzazione. Il capitalismo nella fase della globalizzazione è stato il più potente distruttore di tradizioni della storia, altro che comunismo! Ma è passato per “liberatore”, qui è stato il gioco delle tre carte! Prima della fine del secolo XVIII e del XIX secolo poteva esistere la fine di una tradizione, la lotta di una tradizione culturale contro l’altra, con la conseguente distruzione di quella soccombente, ma mai si trattava di distruzione “della” tradizione tout court, integralmente, “in quanto tale”, fuori da un’altra aggettivazione che la faccia comprendere, tipo tradizione giudeo-cristiana o d’altro genere. Si parla di lotta fra tradizione e modernità solo da quell’epoca, che, però, come si è detto, è quella del capitalismo nella sua fase precedente alla globalizzazione. La globalizzazione è l’epoca nella quale la lotta si è definitivamente conclusa con la vittoria della modernità. Ma, ed ecco la risultante, questa vittoria crea un vuoto e viene riempita da ciò che si reputa, nel mondo moderno stesso!, debba essere o fosse la tradizione. Si tratta di una tradizione come vista oggi, il taglio rispetto alla storia impedisce di vedere le cose come sono. Ma l’effetto finale, allora, sarà una sorta di ibridazione. Le forme tradizionali, quindi, possono sussistere, ma sostanzialmente in una forma “mista” con la modernità, un “ibrido” tradizione/modernità. E un ibrido non può avere l’autorevolezza del passato, né la sua forza. Quest’ibrido alla fin fine è impotente, come il mulo, frutto dell’unione fra asino e cavallo, ma il mulo non dà altri muli! Da un mulo non hai un altro mulo. Il che rimette in moto il ciclo distruttivo, se quest’ibrido non si fa forte della radici storiche e non cerca di ricollegarvisi, fuori dal gioco di specchi moderni. Ma è molto più difficile di quel che si creda.
Il richiamarsi al discorso “identitario” è inutile o ben poco utile, a tal proposito. Infatti, l’identità è un fenomeno non solo complesso ed articolato, ma mutevole nel tempo, capace di adattamenti, cambiamenti, evoluzioni, arretramenti, modifiche, pur rimanendo l’identità se stessa. E’ tale capacità di cambiare rimanendo se stessi che testimonia di un nucleo “identitario”, nucleo che l’Occidente ha perso, qualsiasi cosa vengano a dirci sulla pretesa identità, quali che siano i voli pindarici detti a tale scopo. Un’identità vera, seria, non isterica – l’isterismo denota sempre un’identità debole – è in realtà una composizione di tradizioni culturali diverse. L’identità occidentale si compone di varie correnti tradizionali, così quella cinese, indù o altro.
A questo punto, occorre andare avanti nel nostro discorso ponendosi due domande: 1) Che cosa c’è nel capitalismo nella fase della globalizzazione che gli fa combattere ogni forma di tradizione, in quanto tale, qualsiasi essa sia; 2) Se la tradizione sia solo un oggetto storico o rifletta dell’altro.
Il primo punto è d’importanza decisiva. Il capitalismo distrugge ogni tradizione perché è un agente di uniformizzazione. Per il capitalismo c’è un solo “imperativo categorico”, il resto è questione di gusti soggettivi, tutti fasulli. Dunque l’atteggiarsi del capitalismo a “difensore della libertà religiosa” fa solo ridere riguardo all’ingenuità di chi gli ha creduto. Dunque, ogni cosa che sia diversa da quest’imperativo occorre cercare di ridurre alla stessa forma. I modelli si sono ridotti nel corso del tempo, ed allo stesso modo le varietà delle culture. Questa riduzione, quest’impoverimento ed uniformizzazione hanno, però, costruito una sorta di “bomba culturale” nelle menti umane: l’assenza di senso, di direzione, di uno scopo nella vita. E questa è, e sarà, la grande questione culturale dei tempi attuali e futuri prossimi. E’ ciò che taluno ha convenuto chiamare il “nichilismo” realizzato. Non è che “non ci sono valori”, ce n’è una profusione, ognuno piccolo ed impotente, che abbaia contro la Luna, e tutti sottomessi all’unico disvalore.
Riguardo al punto due, si può pensare, con Guénon, che nelle origini delle forme tradizionali vi sia sempre un elemento che non si può ridurre all’umano, al solo umano, per lo meno. Vi è qualcosa che sfugge, qualcosa d’inspiegabile, qualcosa che può esser che inevitabilmente trascenda la mera dimensione umana. Tutti quelli che hanno distrutto le forme tradizionali, forse, non avevano come scopo distruggere questa o quella, per dei motivi immediati, ma, in realtà, odiavano questa stessa dimensione “X”, chiamiamola così, perché qui non interessa definirla, qui c’interessa solo evidenziare la possibilità della sua esistenza. Perché, in tal caso, molte caso avrebbero senso, molte cose sarebbe possibile spiegarle.
Attenzione al grandissimo errore. Quasi tutti quelli che vedono questa sorta di lotta tra mondo moderno e tradizione, sostengono spesso che il capitalismo, che è stato la punta di diamante in questa lotta senza quartiere, abbia compiuto tutto ciò per una causa economica. Nulla di più errato! Il primato dell’economico su ogni lato della vita umana è il frutto del sistema dominante, e cioè si tratta di un portato storico e culturale, non di un dato “naturale” della storia umana, che, anzi, ci dimostra che il primato dell’economico è caratteristica delle età ultime, stanche, finali. Dunque come poteva essere che l’azione di quel sistema, il cui scopo era di imporre queste determinate caratteristiche culturali, presupponesse, per agire, l’esistenza già in atto di quelle stesse caratteristiche culturali?! Non può essere. Lo scopo era imporle. E sono state imposte a causa di tutta una serie di fattori e forze, ma quello era lo scopo.
Oggi, come si è detto, siamo nella fase della globalizzazione, nella sua fase finale, quando il mondo globalizzato, non potendo più espandere la sua forza, inizia inevitabilmente a collassare su se stesso in un processo che vediamo sotto i nostri occhi. Abbiam visto che ciò che oggi possiamo constatare storicamente non sono forme “pure”, ma ibridi, di fatto.
Che fare, dunque? Da un lato, bisogna essere consapevoli del fatto che sono ibridi e, dall’altro, che solo ibridi oggi possiamo avere. Il che non significa che non vi sia la necessità di cercare più oltre, all’indietro e all’avanti. E’ vero l’opposto, non cercheremo però più di risolvere un problema nei suoi stessi termini, ma cercheremo di andare oltre.
Quanto all’implosione sistemica, essa nasce da cause interne. Sebbene la cosa ci riguardi personalmente e per quanto non possiamo non viverla, se avremo compiuto il “passo fatale”1 del cambiamento di prospettiva, non avremo dubbi, anche qui, che occorra inevitabilmente “andare oltre”, ancora e di nuovo.



1 Si narra che un re goto, per impedire al suo popolo di voler tornare indietro, nel passare un ponte su di un grosso dirupo, dopo distrusse il ponte stesso. La fonte è Jordanes: Storia dei Goti, Tea Storia, 1999. 

[Andrea A. Ianniello] 
 

2 commenti:

  1. Il paradosso più evidente è che la soppressione della dimensione “X” compiuta dal capitalismo globale, e la sua sostituzione di ogni trascendenza con la materializzazione, nella sua onnipresenza esibisce, almeno in termini quantitativi, un approccio “totale” paragonabile a quello di una dottrina tradizionale, per come cioè quest’ultima sarebbe predisposta a interagire con tutti i livelli della realtà. L’ibridismo è pertanto una negazione automatica della vera tradizione, perché essa non è concepita per funzionare come parte di un tutto, ma per dirigere, a sua immagine e somiglianza, quel tutto. Non è del resto prerogativa della tradizione adattarsi a un mondo che non la rappresenta, o dover salvare quello stesso mondo – la tradizione, perlomeno come senso, perché di certo a qualsivoglia tradizione è negata al momento la possibilità di dirigere lo spirito dei tempi, può al limite “attirare” i pochi che di questi problemi abbiano maturato la consapevolezza. E a costoro è rimesso appunto il compito di “guardare oltre”, qualunque il modo...

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