domenica 16 giugno 2013

“LA NATURA COME SPAZIO SACRO, una riflessione interculturale”


LA NATURA COME SPAZIO SACRO,
Salvaguardia del creato,
Buddhismo e Scintoismo.


Introduzione. La salvaguardia del creato
Capitolo 1. La natura come “spazio sacro”
Capitolo 2. Scintoismo e Zen
Capitolo 3. Il concetto di “kami
Conclusioni
Bibliografia

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Introduzione. La Salvaguardia del Creato

Il richiamo alla salvaguardia del creato è stato affermato con forza sia da Giovanni Paolo II, sia da Benedetto XVI. D’altra parte, sono sotto gli occhi di tutti gli effetti di un rapporto fra umanità e creato che ormai è fuori controllo. Recentemente il problema delle perdite di petrolio in Louisiana – un disastro senza eguali – ha riportato al centro una tematica che, però, non è mai davvero sparita.
Una riflessione su questo tema, dal punto di vista religioso, s’impone come ineludibile. La presente, breve, riflessione si concentrerà sul mondo orientale, in particolare giapponese, nell’ottica del dialogo religioso, che fa appello a ciò che vi è di umanamente comune alla differenti religioni.
Un’altra precisazione è necessaria. Parlando della Lettera dell’ottobre del 2007, inviata a Benedetto XVI da un gruppo di sapienti musulmani, promossa da Hassan di Giordania, è stato giustamente osservato che essa “non prende in considerazione come base d’intesa né il decalogo né la legge naturale, elementi che Benedetto XVI ha cercato continuamente di riprendere per il dialogo interreligioso in quanto sono dati che varrebbero per gli uomini di tutte le fedi ed anche per i non credenti”1.
Un’altra, importante, osservazione sulla già citata Lettera, è questa: “La lettera non ha un orizzonte universale: si ferma a ciò che è comune nella Bibbia e nel Corano, come se bastasse l’accordo tra cristiani e musulmani”2.
Si osserva, en passant, che questo difetto di “universalità” è una delle caratteristiche proprie all’Islamismo, e, distinguendo in ogni religione una dimensione di “appartenenza”, ripiegata su di sé, ed una di “universalità”, aperta verso l’Altro, si potrebbe dire – inevitabilmente semplificando – che nel mondo islamico la dimensione di “appartenenza” prevalga, e di molto, e di troppo, sull’altra. Certo, queste due dimensioni variano secondo la storia, in altra epoca l’Islamismo era più aperto ed il Cristianesimo meno. Per esempio, se non vi fosse stato il Concilio Vaticano II anche il tema della natura e della salvaguardia del creato non sarebbe stato così centrale, nel Cristianesimo, come poi di fatto è divenuto3.
Un’altra osservazione, sempre en passant, sul mondo islamico è che tanti problemi che si hanno sia al suo interno, sia nelle relazione tra islamici e membri di altre religioni, dipendono dal fatto che vi manca il concetto di “mediazione”, in molti, troppi campi. Ma torniamo a noi.
Quanto detto appena qui sopra è importante: troppo spesso, per il discorso del dialogo religioso, si guarda solo al campo monoteistico, mentre, in questo breve scritto, si cercherà di guardare oltre.
Un’ultima precisazione introduttiva, di tipo metodologico. Non si può vedere una religione con gli occhi di un’altra, ciò sarebbe metodologicamente scorretto. Bisogna prima chiedere ai suoi aderenti come stanno le cose, il giudizio viene dopo. In altre parole, nella scontata constatazione che non siamo buddhisti, non possiamo semplice assumere quella religione nelle nostre categorie. Certo, si rimane ben distanti, però lo scopo del dialogo non è quello di confermare le distanze, quanto piuttosto quello di mettere in luce i punti in comune su taluni assi portanti. Il problema della salvaguardia del Creato è uno di questi, e non il minore.

Capitolo 1. La natura come “spazio sacro”
Possiamo, semplificando, distinguere due grandi tronconi di forme religiose, quelle che riconoscono il concetto di creazione – “ex nihilo” – da quelle che non lo riconoscono. Tanto l’Induismo quanto il Buddhismo non riconoscono tale concetto, anche se, per l’Induismo, si dovrebbero fare delle precisazioni, essendo il mondo induista molto complesso. Si sceglie questa distinzione piuttosto che quella relativa al Monoteismo perché quest’ultima parola introduce al problema del “teismo”, cioè della credenza in un Divino “persona”, o personale che dir si voglia. E qui occorre precisare una cosa: il Buddhismo non è “ateo”, che è un assurdo, se detto di una forma religiosa, ma è piuttosto “non-teista”, cioè, pur riconoscendo “dèi”, riconosce la forma più alta del Divino nell’Assoluto impersonale. Il personale è soggetto all’impersonale, nel Buddhismo, nelle religione “della creazione” il concetto è speculare. L’Induismo, paradossalmente, riconosce ambedue le forme, teista e non-teista. Metodologicamente, dunque, non è tanto importante come il Buddhismo sia visto dal punto di vista cristiano, o islamico od altri, ma da quello buddhista. E che poi questo punto di vista non coincida con quello cristiano, non sia, dal punto di vista cristiano, accettabile, è certamente vero, ma, senza rinunciare a se stressi, vedere l’altro è fondamentale dal punto di vista scientifico.
La presenza, o non, del concetto di creazione riveste un’importanza decisiva, così che non si può parlare di “salvaguardia” del “Creato” in un mondo che non conosce una rigida divisione creazione/Creatore, ed è interessante il confronto con queste religioni della non-creazione. Lo Scintoismo giapponese è stato profondamente influenzato dal Buddhismo, e, quindi, appartiene al lato buddhista di questa divisione religiosa fondamentale. Tuttavia, ripeto: per quanto profondamente influenzato dal Buddhismo, lo Scintoismo prolunga, nel mondo moderno, le religioni “etniche”; si tratta di una forma specificamente nipponica, infatti. Lo Scintoismo è stato capace di ottenere questo proprio perché ha accettato l’ “ibridazione”, chiamiamola così – l’influenza è il termine più corretto – del Buddhismo. In caso contrario, avrebbe fatto la fine delle antiche religioni precristiane europee, greco-romana in primis, o delle antiche religioni etniche, come quella dei Babilonesi, giusto per fare un esempio.
Lo Scintoismo è una religione soprattutto della natura. La visione della natura, in Giappone, storicamente “è una visione esistenzialista”4. L’incontro con la natura è decisivo, in questo perpetua un atteggiamento davvero “primordiale” nell’uomo, la natura “come realtà fascinosa, maiestatica e tremenda”5, ma lo trasforma in estetica, soprattutto su influsso buddhista. Quest’“incontro” con questa realtà “numinosa”, per dirla con Rudolf Otto, “fa sorgere una sottomissione reverenziale che si traduce in un ricorso a queste forze straordinarie per conseguire una finalità in relazione alla vita”6, e questo è un punto davvero importante. Taluno ha parlato di “vitalismo Shinto” (F. Maraini)7, nel senso che la natura è un insieme di forze vive: questo senso della “vita” è assolutamente presente nella mentalità di quella religione, per quanto, come s’è detto, molto modificata dalla profonda influenza buddhista.
Nondimeno, nonostante quel che molti pensano, il concetto di vita nella Creazione vi è originario, fa parte del sostrato più antico del concetto stesso, come si presenta nel Giudaismo: l’interdipendenza di fenomeni vivi. “L’abbondanza dei fenomeni naturali, ossia creati, venne sperimentata da Israele come un insieme di forme provenienti dalle mani di Dio, che pur nella loro molteplicità formano un tutto unitario8. Indubbiamente, questo senso di coordinazione delle parti è stato il senso del termine “Creazione” che più, storicamente, si è perso. Dal punto di vista scintoista, la natura è qualcosa come uno “spazio sacro”, vivente, dotato di una sua specificità da rispettare, senza manomettere. Il confronto con quel contesto ci ricorda che la Creazione non può essere un insieme di meccaniche forze fisiche, concetto che, troppo spesso, nella storia, ha influenzato il Cristianesimo e che solo negli ultimi tempi si è cominciato a rivedere. Occorre riscoprire il “senso originario” della Creazione, nella sua pienezza, e non monco, riduttivo.

Capitolo 2. Scintoismo e Zen
In ogni caso, si diceva, lo Scintoismo oggi non può esser concepito separato dal Buddhismo, e, nel Buddhismo giapponese, l’importanza dello Zen è stata, storicamente, decisiva. “Il termine zen, za-zen, è la trascrizione giapponese dal cinese ch’an, (…) a sua volta corrispondente al sanscrito dhyāna, cioè ‘concentrazione’, ‘meditazione assisa’. Esso arriva in Giappone dopo una storia già millenaria, e con origini ancora del tutto oscure; presenta caratteri squisitamente cinesi (…) e invece esso divenne una delle componenti essenziali della spiritualità giapponese” (Scintoismo, p. 48).
“In molte sintesi tentate circa lo Zen, ci si sforza d’individuare i significati ricorrendo a paralleli accettabili da altre logiche, come quelle occidentali; oppure si tenta l’ancoraggio ad una ricerca storica che stabilisca l’origine dell’uno o dell’altro motivo da fonti ora taoiste, ora indiano-brahmaniche, ora buddistiche. Ma, in ogni caso, si tratta di diversioni dallo scopo diretto d’una dottrina, il cui nucleo resta in sé inafferrabile, conoscitivamente conturbante e, secondo il termine che più vi si adatta, non-comprensibile. Invero lo Zen non è una religione, non è una filosofia, tanto meno è un sistema di pensiero, né una disciplina. Esso, presentandosi (…) come tutte tali cose, resta fondamentalmente un’esperienza personale ed esistenziale” (pp. 31.32). Semplificando, lo Zen, pur essendo Buddhismo a tutti gli effetti, accetta anche di non esserlo, e pone una domanda che è valida per ogni uomo, buddhista, cristiano, persino islamico, che sia occidentale od orientale, settentrionale o meridionale. Esso non mette in questione in cosa tu credi, ma ti chiede: Tu lo credi? Davvero? Solo guardando dentro di te, nella tua esistenza, lo saprai. E questo è un messaggio rivoluzionario, sempre presente o possibile in ogni contesto. Ed il credere “davvero” è profondamente “esistenziale”, non si sostanzia di “quantità” di pratiche, ma parla alla coscienza di ognuno, lo interroga. Zen e sonno non vanno d’accordo…
Ora, l’assimilazione che lo Scintoismo ha fatto dello Zen è dovuta, sostanzialmente, a due fattori: l’importanza, si è visto, che lo Zen dà alla dimensione esistenziale; il fatto che lo Zen conosceva già la natura come spazio sacro, dove però lo statuto di “sacertà” è ben diverso tra i due mondi religiosi: raffinato ed estetizzante quello Zen, mitologico ed arcaico quello scintoista. Tuttavia sta di fatto che questo terreno comune ha consentito ai due mondi d’ibridarsi, almeno parzialmente. L’importanza data dallo Zen alla dimensione esistenziale spiega la sua facile applicazione alle arti, compresa l’arte militare. Il guerriero ha un pressante problema esistenziale, non ha il tempo per discussioni filosofiche che non siano focalizzate all’essenziale. Ciò non significa che lo Zen fosse l’unica religione tra i samurai: “Per quanto riguarda Amida, il Buddha misericordioso che salva gli uomini nonostante i loro peccati (…), molti guerrieri (…) si rivolgevano a lui (…). E’ assai probabile che l’amidismo abbia continuato ad esistere come fede subalterna di molti samurai, soprattutto dopo che Hōnen (1133-1212) aveva predicato la sua dottrina secondo la quale bastava pronunciare con fede il nembutsu (Namu Amida Butsu) perché anche il peggiore dei peccatori fosse salvato (…). C’era poi la primitiva religione nipponica naturalistico-nazionalista, nota in seguito come shintoismo (la Via degli dei) (…) che continuò a mettere in campo i kami per supplicare la vittoria e per esprimere un certo modo di sentire giapponese scarsamente articolato. Ma lo zen fu di gran lunga la religione prevalente tra i samurai, quella che si rivolse al guerriero più direttamente e con più vigore di qualsiasi altra fede o pratica religiosa”9.
A questo punto è necessaria una precisazione. Il culto dell’immediatezza e dell’azione spontanea – che non significa impulsiva! -, elemento caratteristico dello Zen, è stato molto mal divulgato in Occidente. Se, come s’è visto, l’attenzione all’esistenziale è caratteristica di questa scuola buddhista, e questo è vero, non lo è altrettanto l’idea che lo Zen favorisca l’impulsività, anzi è falso. L’azione spontanea viene solo dopo una lunga disciplina e non è mai impulsiva; si dovrebbe dire piuttosto che è intuitiva. Lo Zen, come si è detto, ha senso nel contesto samurai che l’ha plasmato così a lungo. Si trattava di un mondo – ed in parte qualcosa è oggi rimasto – nel quale l’aspetto etico era ferreo, sostanzialmente di tipo confuciano, dove la lealtà, il rispetto dei superiori, la diligenza erano (ed in parte ancora sono) praticamente qualcosa di assoluto ed irrinunciabile. Per la casta militare dei samurai questo era vero al quadrato. Per i samurai il “dovere” – “giri”, obbligo alla lettera – era una cosa irrinunciabile, ineludibile. Un samurai doveva obbedire al suo superiore per quanto, in privato, lo disprezzasse. Era un mondo che lasciava pochissimi spazi all’individuo e, in questo mondo, lo Zen agì come liberatore da un concetto di dovere che era quasi totalizzante ed onnipervadente. Così si capiscono tanti aspetti apparentemente incomprensibili, che, però, non si possono portare meramente in Occidente, in un contesto diverso, dove prendono un diverso significato, ed inevitabilmente si falsano.
Tornando a noi, proprio questo lato dello Zen che dà importanza all’immediatezza e si applica facilmente alle arti spiega il successo dello Zen tra i samurai. Il samurai spesso si ritirava per dei periodi nei monasteri Zen, indipendentemente se lui personalmente fosse buddhista zen, amidista o si limitasse a seguire i culti ancestrali dello Scintoismo. “Di certo lo scopo principale che i suoi superiori speravano di ottenere inviandolo in un monastero zen ad addestrarsi non era quello di farne venir fuori un santo buddhista, ma di aumentarne al massimo l’efficienza di combattente”10. In effetti, era così. Nel periodo delle lotte per il dominio del Giappone (XVI-XVII secc.) vi fu un momento nel quale il Giappone fu sul punto di divenire cristiano: fra i grandi feudatari che si disputavano il dominio di quella nazione Oda Nobunaga era cristiano, e tuttavia Nobunaga era comunque interessato alle capacità che lo Zen aiutava a sviluppare. Il che ci riporta al punto secondo cui lo Zen, pur essendo una religione, non è solo tale. “In ultima analisi, sembra improbabile che la media dei samurai abbia sperimentato una sostanziale trasformazione spirituale, che siano diventati cioè ‘buddhisti devoti’ nel senso comune del termine, o che abbiano raggiunto l’illuminazione grazie alla pratica dello zen, anche se l’atmosfera e l’ambiente buddhista esercitarono indubbiamente una certa influenza su di loro”11.
Un altro elemento che aiutò l’assimilazione dei due mondi fu il concetto di ki. “Sono state fatte così tante asserzioni strampalate riguardo al misterioso ‘potere del ki’, che a volte si è arrivati a rasentare il ridicolo. (…) In realtà il ki non è altro che la forza vitale presente in ogni essere vivente”12. Inoltre: “Il ki, come un campo magnetico, può avere vari gradi d’intensità. Un essere umano possiede più ki di un filo d’erba, e una persona sana ha più ki di una persona malata. Il livello del ki in qualunque essere dipende da due fattori: il grado di complessità dell’essere vivente ed il suo livello d’organizzazione. Il ki è la forza vitale. (…) Mentre non c’è nulla che possiamo fare per aumentare la complessità del nostro organismo, possiamo migliorarne l’organizzazione. Organizzare qualcosa significa dargli una forma armoniosa, significa coordinarlo. Quando c’è coordinazione nel nostro corpo, significa che tutte le sue parti operano assieme in sintonia, verso un obiettivo comune. Questa condizione è molto rara nelle persone comuni; in quasi tutti c’è almeno una parte del corpo che è in lotta con le altre”13.
Coordinazione, armonia ed obiettivo comune, ecco gli altri elementi della natura come spazio sacro, almeno come storicamente concepiti nel mondo religioso che si sta esaminando brevemente. Questo concetto si unisce a quello di vitalità, per cui la natura è un insieme vitale e coordinato. Ci vogliono ambedue le cose, mentre in Occidente, ed anche nel Cristianesimo, si tende ad enfatizzare solo il secondo punto e lo si scambia per leggi esprimibili matematicamente, quando la matematica è solo descrittiva e non ci può far vedere il quadro d’insieme, dal quale viene la visione della coordinazione delle parti. Paradossalmente, questo confronto con un mondo “altro” può aiutare a riscoprire il mistero della Creazione, che è conditio sine qua non della salvaguardia del Creato. Se il Creato è un mero insieme di leggi e regole, difficilmente sarà salvaguardato, perché non si comprenderà che esso non è un oggetto di proprietà da salvaguardare, ma è una figurazione dell’Altro: infatti noi non siamo in grado di costruirne la coordinazione né di dargli la vitalità. Ciò che gli uomini possono fare, e fanno, è usare taluni procedimenti naturali, ma per dei loro fini utilitaristici. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, uno squilibrio enorme sia tra natura ed umanità, sia, a livello sociale, tra i paesi più ricchi e quelli più poveri, e, all’interno della varie società particolari, tra i più ricchi ed i più poveri, perché la forbice si va allargando da tempo anche all’interno delle società più ricche.
Dunque coordinazione-armonia e vitalità-immediatezza. Su quest’ultimo punto si può dare un breve accenno. Il termine giapponese “waza”, “tecnica”, è mal tradotto. Da noi una tecnica può essere anche un procedimento matematico di analisi, o chimico, il “waza” è una forma ripetuta così tante volte da essere assolutamente irriflessa. Questo fatto già di per sé fa capire la differenza profonda dei due contesti culturali, differenza che non va sottostimata14.

Capitolo 3. Il concetto di “kami
Il contesto nipponico, dunque, si declina tra la raffinata metafisica intuitiva dello Zen e la percezione “arcaizzante” del divino nella natura, tipica dello Scintoismo. Difatti è un grosso errore tradurre il termine giapponese, intraducibile, di “kami” con “dio”, “god”, “deus” o theòs” che dir si voglia. Sempre in questi termini si dà per scontato che il “dio” in questione sia “personalizzato”, quando invece il “kami” è piuttosto una presenza, molto affine al latino “numen”, con qualcosa in più rispetto al “mana”, perché il mana è informe, mentre il numen è sempre localizzato in un luogo naturale, il che ci riporta al concetto di natura come spazio sacro. Potremmo chiamarli la “presenza numinosa” di un luogo. “Il kami è considerato l’abitante del luogo, che si trovi permanentemente in un santuario o nella sua effimera manifestazione durante le feste, comunicando con gli uomini; ma molto spesso non ha forma. (…) Questa non-figurazione non deriva né da un’incapacità tecnica (…), né da una particolare proibizione – di certi kami si finirà per tracciarne figure”15. Il parallelo con talune religioni precristiane, anche, se non soprattutto, quella greco-romana, è calzante.16
Chiaro che l’uomo moderno non può certo tornare all’adorazione delle forze naturali, ma è altrettanto chiaro che il ridurre il Creato ad un mero insieme di meccanismi da usare in modo utilitaristico – spesso da parte di minoranza egoiste! – ha aperto la Porta ad una situazione di dissoluzione su piano mondiale.


Conclusioni
Questo breve sguardo ad un mondo “altro” ci fa sorgere la domanda: non sarà che la “figurazione dell’Altro” possa essere, anche, la Creazione? Per noi di solito l’Altro è solo nell’uomo e questo potrebbe un limite profondo. In tal senso, i peccati contro la Creazione sono peccati a tutti gli effetti e non mancanze secondarie, lievi, poiché: “Il peccato è il rifiuto dell’altro e quindi respinge Dio”17. Ancora: “Io credo che l’uomo moderno abbia l’urgenza di recuperare il primato di Dio e di riconoscere la sua gloria”18, anche nella Creazione, tant’è che un tempo si pensava che, partendo dalla gloria della Creazione, si potesse poi più facilmente giungere a Dio. Questa via oggi è quasi completamente dimenticata, viviamo in un mondo tecnico solo umano, peraltro ingiusto anche socialmente, come s’è già detto. Non sarebbe impossibile che i due temi, guardando più profondamente, divisioni e scismi sociali e cattivo rapporto con il mondo naturale, siano molto più profondamente correlati di quel che si pensi comunemente. 

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BIBLIOGRAFIA
Bhikku Satori Bhante, Lo Shintoismo, Rizzoli Milano 1984
Dizionario delle religioni monoteistiche, Piemme Casale Monferrato 1991
E. J. Harrison, Lo spirito guerriero del Giappone, Edizioni La Comune Milano 2009
Winston L. King, Lo Zen e la Via della spada. La formazione psicologica del samurai, Ubaldini Roma 2000
Frederick J. Lovret, La via della Strategia. I segreti dei guerrieri giapponesi, Mediterranee Roma 2009
François Macé, Lo shintō: i kami, in Atlante delle religioni, Utet Torino 1996
B. Naaman – E. Scognamiglio, Islâm Îmân. Verso una comprensione, Edizioni Messaggero Padova 2009
Raffaele Nogaro, Tutti cercano di toccarlo. Un profilo d’esistenza Cristiana, Tipografia Depigraf 2002
G. Parrinder, Storia universale delle religioni, Arnoldo Mondadori editore Milano 1984
O. Ratti - A. Westbrook, I Segreti dei Samurai, Mediterranee Roma 2007

NOTE

1 B. Naaman – E. Scognamiglio, Islâm Îmân. Verso una comprensione, Edizioni Messaggero Padova 2009, p. 54.
2 Ibid.
3 E’ senza dubbio giusta l’osservazione secondo cui il Concilio e le sue decisioni sono rimasta, nella grandissima parte dei casi, solo sulla carta, per molte responsabilità concordi, che han condotto all’attuale crisi. Anche il tema della salvaguardia del Creato è rimasto “cartaceo”, in sostanza. Davvero ognuno di noi “salvaguardia” il Creato? Davvero ognuno di noi sceglie il bene dell’insieme rispetto al suo solo bene? Il tema della salvaguardia del Creato, piaccia o non, investe tutta la nostra vita, i nostri comportamenti, troppo spesso caratterizzati da un’inavvedutezza davvero profanatrice, si manomettono i terreni senza tener contro della fatica e del lavoro, davvero amorevole, della sollecitudine che ha presieduto alla loro elaborazione. Oggi si sa che lo stesso terreno agricolo è una complessa elaborazione dovuta anche alla sostanza vivente che agisce in essi, senza la quale la Terra tornerebbe al deserto in poco tempo. Troppo uomini vivono come se loro fosse tutto dovuto, e, senza dubbio, la Terra fornisce a tutti qualcosa. Ma ci sono dei limiti…
4 Bhikku Satori Bhante, Lo Shintoismo, Rizzoli Milano 1984, p. 46.
5 Id., p. 48.
6 Ibidem.
7 In effetti, lo Scintoismo è la ricerca del divino nella natura, e, in tal senso, è l’ unica delle fedi “pagane”, salvo popoli veramente minimi, che sia perdurata sino ad oggi, proprio perché capace d’ “ibridarsi” con il molto più complesso e colto Buddismo, ma è stata tale ibridazione a salvare lo Scintoismo dall’estinzione che è sempre avvenuta quando una religione “nazionale” e culto degli spiriti locali ha incontrato una religione “superiore”, ovvero ben strutturata e materialmente, come strutture istituzionali, e teologicamente. In sostanza, lo Scintoismo è “il culto dei kami”: “I kami sono gli spiriti locali, distinti dalle creature celesti del buddismo; nelle traduzioni spesso diventano ‘dèi’, ma in realtà possono essere considerati più ampiamente, come esseri superiori o straordinari. Un letterato scintoista del XVIII secolo, Motoori, ha scritto che ‘qualsiasi cosa meriti di essere temuta e venerata per i suoi poteri straordinari e superiori è detta kami’” (G. Parrinder, Storia universale delle religioni, Arnoldo Mondadori editore Milano 1984, p. 205).
Quanto a Maraini, egli parla chiaramente, a proposito dello Scintoismo, del suo “fondamentale vitalismo. Lo shintō, infatti, è in primo luogo una religione che santifica ogni aspetto della vita di questo mondo, (…) immergendosi nel ‘fervido presente’ (naka-ima) di cui l’energia vitale è suprema realtà e meraviglia. (…) In tale ottica vitalistica, massimo scandalo è ovviamente la morte. Accettata sì, (…) ma intesa come momento sommamente negativo e impuro. Lo horror mortis impose per secoli lunghe pratiche purificatorie (…). D’altra parte, proprio lo horror mortis, con tutto ciò che ne consegue, ci offre una delle ragioni che spiegano in modo assai soddisfacente il connubio millenario tra shintō e buddismo. Se per il vitalismo shintō la morte è scacco e paradosso, impurità e bruttura, nell’ottica della spiritualità buddhista essa è invece liberazione e possibile trapasso a felicità sperate, per lo meno a nuovi gradini d’ascesa verso il nirvāna” (F. Maraini, Lo shintō, in: AA.VV., a cura di G. Filoramo, Storia delle religioni, 4. Religioni dell’India e dell’estremo Oriente, Laterza editori Roma-Bari, pp. 615-617). Vi è dunque anche un lato “oscuro” che ricorda molto la religione pre-cristiana specificamente romano-etrusca, con la grande differenza che in Occidente il Cristianesimo ha sostituito, con la sua speranza ultraterrena, il mondo vitale, ma pure con venature cupe, tipico della “paganitas”, mentre in Giappone le due religioni si sono, in certa misura, integrate. Si son integrate, tuttavia, mai in modo completo e definitivo, diciamo una “simbiosi” fra estranei, ma mai una mescolanza fra i due contesti, dunque non vi è stato quello che in Occidente si chiamerebbe “sincretismo”, ovvero confusa mescolanza tra culti differenti. Ognuno è rimasto a casa sua, ma ci si è influenzati a vicenda, il Buddismo prendendo da esso una grande sensibilità verso la natura, lo Scintoismo prendendo dal Buddismo la struttura e venendo costretto ad elaborare almeno una base di teologia. Difatti, lo Scintoismo è privo di un testo sacri, o di testi sacri, in questo, di nuovo, molto vicino alle religioni occidentali precristiane. Lo Scintoismo ha due testi di riferimento, il Kojiki – in giapponese antico – e il Nihongi, in cinese antico. In realtà, tuttavia, si tratta di raccolte di leggende, di miti, non di una Rivelazione di una Via o di qualcosa di nuovo, che prima non esisteva.
8 «Creazione», in Dizionario delle religioni monoteistiche, Piemme Casale Monferrato 1991, p. 166.
9 Winston L. King, Lo Zen e la Via della spada. La formazione psicologica del samurai, Ubaldini Roma 2000, pp. 173-174.
10 Id., p. 194.
11 Id., p. 193.
12 Frederick J. Lovret, La via della Strategia. I segreti dei guerrieri giapponesi, Mediterranee Roma 2009. p. 49.
13 Id., p. 50.
14 Ed ecco le “tecniche” d’estrazione immediata, per esempio della spada. Il confronto era sempre rapidissimo. “Uno dei primi osservatori occidentali del Giappone feudale, il gesuita Alessandro malignano (1539-1606), si meravigliava della rapidità con cui uno spadaccino poteva uccidere il suo avversario ‘al primo o al secondo colpo’ di spada” (O. Ratti - A. Westbrook, I Segreti dei Samurai, Mediterranee Roma 2007, p. 133). La pratica fondamentale era – ed è – la “centralizzazione”, lo haragei: “il haragei veniva anche considerato responsabile dell’impassibilità di fronte alla morte (per fuoco o per ferro) dimostrata da tanti monaci davanti ai guerrieri di Nobunaga e Hideyoshi” (ibid., p. 407), i quali due condottieri, Oda Nobunaga e Hideyoshi, attaccarono vari monasteri buddisti nipponici nelle dure lotte che portarono all’unificazione del Giappone, nel XVI secolo. Nel libro da cui si sono appena tratti due passi, si cita un vecchio scritto di Harrison del 1911 che, fortunatamente, è stato recentemente pubblicato (finalmente!) in Italia da un piccola e benemerita casa editrice. A parte lo spaccato di un Giappone che non esiste più, vi è tutto il capitolo dedicato all’ “Esoterismo del ju-jutsu” che è interessante per questi temi. A tal proposito, particolarmente interessanti son queste pagine: cfr. E. J. Harrison, Lo spirito guerriero del Giappone, Edizioni La Comune Milano 2009, pp. 45-45 e pp. 129 e sgg.
15 François Macé, Lo shintō: i kami, in Atlante delle religioni, Utet Torino 1996, p. 227.
16 Nondimeno, “la maggior parte di questi dèi non è sopravvissuta al declino del pensiero mitico, avvenuto per effetto dell’influenza del Buddhismo e del pensiero cinese. Le grandi divinità che li hanno sostituiti hanno quasi tutte smesso di partecipare all’antica visione del mondo e finito per integrarsi alle concezioni sincretistiche del Buddhismo. Fatto significativo, i racconti che le riguardano non narrano più l’origine del mondo, ma quella del loro santuario” (Id., pp. 228-229). Il culto della natura ha contribuito molto all’assimilazione. Tuttavia, per quel che riguarda la sovranità, è avvenuto l’inverso, perché, pur avendo il Buddhismo spesso interferito sulla vita politica giapponese, esso non era la fonte della legittimità del sovrano giapponese. Questo portò alla divinizzazione della figura del sovrano dal 1867 al 1945.
17 Raffaele Nogaro, Tutti cercano di toccarlo. Un profilo d’esistenza Cristiana, Tipografia Depigraf 2002, p. 17.
18 Id., p. 75.

[Andrea A. Ianniello] 


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