(Occorre sempre sforzarsi di …
A proposito di un mio
commento al post precedente[2],
chiamo questo post “Ricordare Foucault”, per parafrasare – in senso contrario –
il vecchio libro di Baudrillard ricordato nel commento in questione.
“Oggi particolarmente
il reale non è più che questo: stockaggio di materia morta, di corpi morti, di
linguaggio morto. Ancor oggi la valutazione dello stock di reale ci securizza”[3].
E cosa si fa, ogni giorno quasi, al “giorno d’oggi”??
“Né istanza, né
struttura, né sostanza, né rapporto di forze: il potere è una sfida [corsivi miei]. Dal manichino di potere delle
società primitive, che parla per non dir niente, al potere attuale che è presente
solo per scongiurare l’assenza di potere, è stato percorso tutto un ciclo,
quello di una doppia sfida. […] La storia reale
del capitale. Tutto il pensiero critico del materialismo è soltanto il
tentativo di arrestare il capitale [verissimo!!, nota mia], di cristallizzarlo nel momento della sua razionalità economica e
politica [corsivi miei]. ‘Stadio dello specchio’ del capitale cullato dalle
sirene della dialettica. […] Fortunatamente il capitale non si lascia
imprigionare in questo modello, lo supera nel
suo movimento irrazionale [corsivi miei]”[4].
Ma la più grande baggianata dalla storia è quella di credere che il
capitale sia “razionale”, nulla di
più falso, ha delle modalità e
dei mezzi razionali, ma non gli scopi, ma il suo fine, il suo fine non
è affatto “razionale”, in alcun modo.
“Vi fu un tempo in cui
il potere accettava di sacrificarsi secondo le regole di quel gioco simbolico
cui non può sfuggire. Un tempo in cui il potere era la qualità effimera e
mortale di ciò che dev’esser sacrificato. Da quando esso ha cessato di esser
potere simbolico per diventare potere
politico ed una strategia di dominio
sociale, la sfida simbolica non ha cessato d’insidiarlo nella sua definizione politica [corsivo mio], di disfare la verità del politico
[corsivi miei, e questo punto è decisivo,
nota mia]. Oggi […] è tutta la sostanza
del politico che crolla [corsivo mio; dunque è già crollata, vista la data del libro …, nota mia]. Siamo al punto in cui nessuno assume il
potere [corsivi miei; esattissimamentissimamente,
ma queste frasi sono del 1977 …, ed oggi,
dove siamo (domanda retorica), nota mia], nessuno ne vuol più sapere, non per
una qualche debolezza storica o caratteriale, ma perché s n’è perduto il
segreto e nessuno vuol più riprendere questa sfida. Tanto è vero che basta
rinchiudere il potere nel potere per farlo crepare. Contro questa ‘strategia’, che strategia non è [corsivi miei], il
potere si è difeso in tutti i modi possibili (proprio anche in questo consiste il suo esercizio [corsivi miei]): democratizzandosi [corsivo mio], ecc. Ma
mentre i ‘rapporti di forze’ si lasciano facilmente intrappolare e disinnescare
da queste astuzie del politico, la contro-sfida, nella sua semplicità
ineluttabile, non può aver fine che insieme al potere stesso”[5].
Tutto questo si
riassume di poche parole: la “costruzione moderna del potere” sta collassando, e non da ieri, oggi ne stiamo vedendo le battute finali, e, a
differenza della “fine” del “mondo mitico”, come nella “Rovina di Kasch” non certo
“onde maestose” riempiono i cuori di “meraviglia e timor”, ma un vicino ne
batte un altro per interessi molto concreti e pratici. Non “grandi eroi”, ma
solo trincee fangose, così è, chi non capisce questo sta nei propri sogni, ché poi il “nostro” mondo è
specialista nel dare super compensazioni illusorie.
“La storia reale della lotta di classe. I soli
momenti reali furono quelli in cui la classe dominata si è battuta sulla base
del rifiuto di se stessa ‘in quanto tale’, sulla base del solo fatto che non
era niente. Marx lo aveva ben detto che un giorno essa avrebbe dovuto essere
abolita. Ma questa era solo una prospettiva politica. Quando la classe od una
frazione di classe preferisce giocare come radicale non-classe, come
inesistenza di classe, vale la pena giocare la propria morte subito nella
struttura esplosiva del capitale, quando sceglie di implodere d’un tratto
invece di cercare l’espansione politica e l’egemonia di classe, allora si
arriva al giugno ’48, alla Comune [di Parigi, 1871] o al maggio ’68. Segreto del
vuoto, forza incalcolabile dell’implosione (contrariamente alle nostre
immaginazioni sulla esplosione rivoluzionaria) – si pensi al quartiere Latino
il 3 maggio nel pomeriggio. Il potere stesso non si è sempre considerato
potente ed il segreto dei grandi politici fu quello di sapere che il potere non esiste. Che esso è soltanto uno
spazio prospettico di simulazione, come fu quello pittorico del Rinascimento e
che, se il potere seduce, è proprio perché (cosa che i realisti ingenui della
politica non capiranno mai) è simulacro, perché si trasforma in segni e s’inventa
su dei segni (questa è la ragione per cui la parodia, la reversione dei segni o la loro esasperazione può
toccarlo più profondamente di qualsiasi altro rapporto di forze). Questo segreto
dell’inesistenza del potere che fu quello dei grandi politici, è anche quello
dei grandi banchieri, cioè che il denaro non esiste; fu quello dei grandi
teologi ed inquisitori, cioè che Dio non esiste, che Dio è morto. Questo conferisce
loro una superiorità favolosa. Quando il potere afferra questo segreto e lancia
contro se stesso la propria sfida, allora esso è veramente sovrano. Quando smette
di farlo e pretende di trovarsi una verità, una sostanza, una rappresentazione
(nella volontà del popolo, ecc.), allora esso perde la sua sovranità”[6].
“Quando si parla tanto
del potere, vuol dire che questo non c’è più. […] Il sangue fresco viene al
potere dal desiderio. Ed esso stesso non è più che una sorta di effetto […] di strategia
ai confini della storia. E’ proprio qui che giuocano [con la “u”, sic!!, nota mia] anche ‘i’ poteri di
Foucault: innestati sull’intimità dei corpi, sul tracciato dei discorsi, sull’accoppiamento
dei gesti, in una strategia più insinuante, più sottile, più discorsiva, che
anche qui allontana il potere dalla storia e lo avvicina alla seduzione. Fascinazione
universale per il potere, nel suo esercizio e nella sua teoria, fascinazione
così intensa solo perché è quella di un potere morto, caratterizzato da un effetto di resurrezione simultanea, in
modo osceno e parodistico, di tutte la forme di potere già viste, esattamente
come avviene per il sesso nella pornografia. La morte imminente di tutti i
grandi referenti (religioso [interessante considerazione alla luce dell’ “integralismo”
religioso, nota mia], sessuale, politico, ecc.) si traduce in una esacerbazione
delle forme di violenza e di rappresentazione che li caratterizzavano. Nessun dubbio
che il fascismo, per esempio, sia la prima forma oscena e pornografica di ‘revival’
disperato del potere politico. Riattivazione violenta di un potere che dispera
dei propri fondamenti razionali (la forma rappresentativa che si è svuotata del
suo significato sul filo del XIX e del XX secolo), riattivazione violenta del
sociale in una società che dispera del proprio fondamento razionale e
contrattuale – il fascismo è tuttavia il solo potere moderno affascinante,
poiché è l’unico, dopo il potere machiavellico, ad assumersi in quanto tale, in
quanto sfida, prendendosi giuoco di ogni ‘verità’ del politico, e l’unico ad
aver accettato la sfida di dover assumere il potere fino alla morte (la sua,
quella degli altri). Proprio perché ha accettato questa sfida esso ha beneficiato
di quello strano consenso, di quell’assenza di resistenza al potere”[7].
Considerazioni interessantissime, alla luce oscura e tenebrosa della situazione
attuale, di “risorgenza” di certo “neonazionalismo” che il fascismo è, e che l’ “hitlerismo” – conviene precisarlo – in sostanza non è, pur assumendone molte forme esteriori. Si spiega così la sostanziale non resistenza
rispetto a fenomeni del momento presente, ma si spiega così anche la non
resistenza di fronte al capitalismo dell’epoca dei “fasti” della globalizzazione,
circondato da un consenso incredibilmente unanime, o certe fasi dello
stalinismo e del maoismo: in tutti questi casi, la resistenza semplicemente
crolla, vi è un’incredibile “assenza di resistenza”, fenomeno evidentissimo, ma
di cui nessuno sa darne ragione, che nessuno spiega. Anzi, nella sociologia
corrente vi è il consensus omnium che
secondo il quale il problema non esiste nemmeno. Forse qualche storico se lo
pone in qualche nota a pie’ pagina. Rimane che la spiegazione di tal fenomeno è
molto difficile.
Di seguito, lo stesso
Baudrillard riconosceva nel fascismo storico
un tentativo nostalgico di “ritorno”
del politico ad una fase di sua effettiva potenza. Nell’attuale fenomeno del “neonazionalismo”,
dunque, occorre vedere il tentativo di ritorno a forme già “nostalgiche”[8],
per cui siamo alla nostalgia della
nostalgia …
Una sorta di “sciatalgia del politico”, insomma, una dichiarazione incredibile d’impotenza del politico …
Una sorta di “sciatalgia del politico”, insomma, una dichiarazione incredibile d’impotenza del politico …
NB. Dentro alla copia appena citata del vecchio libro di Baudrillard vi è un brano da un’intervista di D. Salvatore Schiffer a Zinoviev intitolato “Inevitabile la dittatura”, il frammento d’articolo ha – dall’altro lato – un frammento che fa capire che si tratta del giorno in cui Shevardnadze diede le dimissioni dal governo Gorbachev [Gorbačëv] in cui aveva la carica di ministro degli esteri: il 20 dicembre del 1990[9].
Fra chi pensava che la
Russia fosse definitivamente finita, e chi pensava che sarebbe tornata al
potere, quando vi sarebbe stata una dittatura di nuovo – in style XXI secolo, ovviamente -,
personalmente all’epoca optavo per la seconda ipotesi. Le cose son sembrate
negare questo fatto, finché si è presentato Zhirinovksij, e finché – come scrissi
in un articolo molto tempo fa[10]
– non fu chiaro che altri ne avrebbero “stralciato” alcuni brani verso un “neonazionalismo”
che, inevitabilmente anche – se non soprattutto – in Occidente, Europa in testa
- vede in Putin il suo alfiere.
Dunque l’ “orizzonte”
(in russo gorizont) dei “neonazionalismi”
è molto forte, oggi. Peccato siano nostalgia di nostalgia … il che non li rende
meno pericolosi, perché il meccanismo dell’ “assenza di resistenza” è in atto, hic et nunc, e può aver successo in
quanto il resto della “politica” è
un polverulento ammasso di “resti” e di cose monche …
Andrea A.
Ianniello
[1]
“40. Vivere senza infelicità. Disse Huitang: Le cose trascurate per lungo tempo non possono essere ripristinate in
un batter d’occhio. I mali che sono
andati accumulandosi per anni non possono esser spazzati via in un attimo. Non
ci si può divertire sempre. Le emozioni
umane non sono perfette. Non si evita la sventura cercando di sfuggirla. Chiunque
insegni ed abbia capito queste cinque
cose, potrà vivere senza infelicità”
(Lezioni di Zen. L’arte di comandare,
Edimar, Milano 1996, p. 46, corsivi miei). Ho sempre cercato di seguir questi
saggi consigli, per vivere senza infelicità …
Altro testo, di considerazioni
varie, “sparse” come foglie d’autunno, e spesso di “etichetta” (“etichetta” che
poi vien a sua volta spesso criticata come la passione giapponese per la
ricchezza) e di estetica (contro l’uniformità, giudicata “brutta”), dal quale ho
tratto però qualche centone utile di “saggezza pratica”, è quello di Kenkô, dal
qual estraggo queste sparse frasi: “Ecco le cose che ricordo di aver trovato
interessanti nello scorrere un libro intitolato, mi pare, Ichigon hôdan, in cui sono raccolte le parole di venerabili saggi: Quando
si è in dubbio se fare o non fare una cosa, è bene astenersene. Colui che tende
alla vita futura non deve possedere neppure un vaso da miso. E anche per i testi e le immagini religiose, è futile averne
di preziosi. […] Le persone di alto rango dovrebbero comportarsi come se
fossero di umili origini, i saggi come stolti, i ricchi come poveri, i capaci
come incompetenti” (Kenkô, Ore d’ozio, SE, Milano 1995, p. 65).
“Un tale, famoso
per la sua abilità nel salire sugli alberi, stava insegnando a uno come
arrampicarsi su una pianta per tagliarne i rami più alti, e anche quando sembrò
che costui fosse in grave pericolo non disse nulla. Solo quando, nel discendere,
fu giunto più o meno all’altezza dei tetti, gli disse: ‘Stai attento, non far
sbagli!’. Qualcuno osservò: ‘Da quell’altezza potrebbe anche saltar giù
agevolmente: perché, dunque, gli avete detto così?’. ‘E’ proprio questo il
punto’ rispose l’esperto. ‘Se uno ha le vertigini e si trova in pericolo su un
ramo, ha già tanta paura per conti suo che non gli dico nulla: i passi falsi si
fanno sempre quando si crede di stare in un luogo sicuro’. Sebbene fosse un
uomo di umili condizioni, i suoi ammonimenti erano quelli di un saggio” (ivi, pp. 71-72). Kenkô ha pienamente il
culto, tipicamente nipponico, dell’ “esperto”
a fronte del dilettante, pur brillantemente dotato.
“Un tale, noto per
la sua abilità nel sugoroku [diverso da quel gioco che oggi porta lo
stesso nome; corsivo in originale], interrogato sul segreto del suo successo,
disse: ‘Non bisogna mai giocare per vincere, ma in modo tale da non esser
vinti: si individui dunque la mossa che può portare rapidamente alla sconfitta,
la si eviti e si faccia quella che la ritarderà, sia pur di un solo quadrato’. Ecco
l’insegnamento di uno che conosceva bene
la sua arte, ma che vale anche per il
controllo della propria condotta e per il governo
di un paese” (ivi, p. 72, corsivi miei).
“Quando nel
gioco d’azzardo uno continua a perdere e giunge a rischiare quel poco che ancora
gli rimane, l’avversario farebbe bene a rifiutarsi di continuare, considerando
che può esser vicino il momento in cui per l’altro la sorte cambierà e incomincerà
a vincere a sua volta. Buon giocatore è
colui che sa riconoscere questo momento. Così mi ha detto un esperto” (ivi, p. 80, corsivi miei). “Quando
cambiare non porta alcun beneficio, è meglio lasciare le cose come stanno”
(ibid.).
[2]
In extenso:
‘Ma il fatto
stesso che simili sciocchezze [il ritorno alla “nazione”] siano spacciate come
“soluzione” (= ulteriore passo verso al **dys**-soluzione) la dice lunga: non è
che ci siano altre “idee”, non è che, come in altre epoche, da un lato vi sia
un modello e dall’atro un altro – che ci piaccia o non quest’ultimo. Non vi è
alcun modello, e in tal senso, se la crisi è nata dalla mala gestione della
“fine del comunismo” - che ha portato la potenza dominante a voler imporre il
proprio modello “democratista” all’intero mondo, fallendo miseramente com’era
facilmente prevedibile -, come “causa scatenante ed ‘occasionale’”, vi è
qualcosa di molto più grave, vi è qualcosa che nella storia raramente si è
visto (chiaro eufemismo) e cioè quel che ho avuto modo di chiamare “dissolvenza
mentale”, qualcosa di ***qualititativamente*** differente da una mera crisi
storica.
Fondamentale
l’esser consapevoli di questo punto.
Insomma è un
corpo sociale globale che non può non auto mangiarsi, prima lo faceva in modo
controllato, ora tal fenomeno è incontrollabile, avrebbe detto Baudrillard
“illo tempore” che si sé passati dall’implosione controllata all’implosione
incontrollata (J. BAUDRILLARD, “All’ombra della maggioranze silenziose ovvero
la morte del sociale”, Cappelli, Bologna 1978!! [*]). L’ “implosione” di Baudrillard,
in linguaggio preso da GUÉNON, dicesi: **dissoluzione**, il **contrario** della
soluzione, in altre parole.
In aggiunta,
importante qui ricordarsi quel che “illo tempore” scriveva R. GUÉNON ne “Il
Regno della Quantità”, parte finale (e ricordato più d’una volta da Incànus, se
non ricordo male, ma potrei sbagliarmi), e cioè che – perché il processo di
“dissoluzione” fosse completo, non già un processo di “polverizzazione” (che
noi abbiam visto!, ed esperito, perché questo è stato il nostro recente passato
dagli Anni Novanta in poi!) – si necessita l’intervento di “qualcosa d’altro”
rispetto al “tutto sommato limitato ambito del ‘Regno della Quantità’”, per
parafrasare Guénon, **non** come i “guénonisti” che, come gli “evolomani”,
ripetevano le frasi di Guénon a pappagallo: a che cosa serve ripetere se non si
comprende … domanda retorica, ovviamente …
E qui vi sarà il
prossimo anello nella crisi perenne, che ormai – come diceva giustamente sempre
lo stesso Baudrillard “illo tempore” – è divenuta il nostro **residuale**
principio di realtà, il “System” ha necessità della crisi sennò sarebbe
costretto ad implodere oppure a cambiare le sue finalità, cosa quest’ultima che
già Marx – nel suo lato migliore -, “illo tempore”, reputava totalmente impossibile.
[*] Stesso
discorso per J. BAUDRILLARD, “Dimenticare Foucault”, Cappelli, Bologna 1977!!,
immediatamente precedente all’altro su citato, dove Baudrillard – nella parte
finale (p. 83 e sgg., a p. 89 già parava del “simulacro del potere”) – già
criticava Foucault il quale, pur ben delineando la “genealogia del potere
moderno”, non riusciva però a vedere – “illo tempore” – quanto quest’ultimo
stesse in crisi, fosse “polverulento” e in decadenza. Ricordiamoci che quegli
anni furono quelli nei quali si mettevano le basi della globalizzazione, della
sudditanza totale del potere politico – supposto ancora una supposta dolorosa e
possente ma manco una pillo letta
inodore, incolore, insapore – al potere economico, e di tutto ciò il
recentemente scomparso David Rockefeller è stato un gran tessitore, un grande
costruttore dietro le quinte.
Ora perché cito
le **date** di certi testi. Le riporto “in extenso” e le sottolineo – di solito
con “!!” o “**” – per far capire che la crisi in cui ci si dibatte **non è nata
ieri**, ma invece ha **radici profonde**, dunque potrà mai risolversi con
quattro fesserie semplificanti, com’è costume oggi … domanda retorica … Anzi,
l’iper “semplificazionismo militante” dei “nostri” tempi n’è una delle
caratteristiche dominanti, ma che ti fa capire che, davvero, “non sanno che
pesci pigliare”, e questo fa capir ancor di più quanto grave sia la crisi, ma
davvero … ’.
[3]
J. Baudrillard, Dimenticare Foucault, Cappelli, Bologna 1977, p. 94, corsivo in originale.
[4]
Ivi, p. 98, corsivi in originale,
salvo sia diversamente indicato.
[5]
Ivi, p. 100, corsivi in originale, i
corsivi miei son segnalati fra parentesi quadre.
[6]
Ivi, pp. 102-103, corsivi in
originale. Non casualmente, Lenin la
cosa che studiò di più fu la Comune di Parigi: “Le numerose rivoluzioni tentate
o realizzate nel corso della storia avevano insegnato a Lenin molte cose (era
per la rivoluzione che era nato e vissuto, non doveva conoscerla prima e meglio
d’ogni altra cosa?), aveva i suoi personaggi, i suoi momenti, i suoi metodi, e i
suoi personaggi preferiti. Tuttavia coi suoi occhi ne aveva vissuta una sola, e
neanche dall’inizio, non tutta quanta, non nei suoi momenti decisivi, e non vi
aveva preso parte alcuna, aveva dovuto limitarsi ad osservarla, per trarne
deduzioni e post-deduzioni. Ma ce n’era stata un’altra, in un altro paese, quando
lui era ancora piccolissimo, per la quale sentiva una sorta di fatale affinità,
e che gli faceva battere il cuore come al nome dell’amata, una specie d’incoercibile
passione, di amore-dolore: i sessantun giorni che era durata erano per lui come
i giorni più decisivi della sua propria vita, li aveva sviscerati uno a uno, i
suoi errori bruciavano più degli altri e il suo nome l’aveva sempre sulle
labbra: la Comune di Parigi! Se in Occidente aspettavano da lui spiegazioni su
qualcosa, se consideravano importante la sua opinione, era a proposito della
rivoluzione russa del 1905, e lui la commemorava regolarmente […]. Ma per lui
parlare di questa rivoluzione che gli avevano soffiato sotto il naso era
piuttosto noioso […]. Nessuno gli domandava mai che cosa pensasse della Comune
di Parigi, molti potevano parlarne in modo più attendibile, ma era lui stesso a
voler stringersi ad essa, come se col contatto […] potessero reciprocamente
guarirsi. E quando […] avevano dovuto tutti, nel segreto e nella clandestinità,
fuggire ad uno ad uno dalla Russia perduta per sempre, egli, scoraggiato, in rotta
con i suoi compagni, coi nervi tesi all’estremo, si era consegnato in quel
marcio inverno ginevrino del 1908 all’abbraccio della solitaria stesura degli insegnamenti della Comune di Parigi. Anche
in questo inverno egualmente teso del 1917 […] era arrivato da Abramovič l’inaspettato
invito a commemorare […] la proclamazione della Comune, il 18 di marzo” (A. I. Solženicyn, Lenin a Zurigo. Capitoli, Oscar Mondadori, Milano 1990, pp. 238-239,
corsivi in originale). La cosa fu, evidentemente, per lui, per Lenin, di buon
auspicio … Di quest’ultimo libro di Solženicyn è stato scritto giustamente: “lo
scritto di Aleksandr Solzenicyn, Lenin a Zurigo. Capitoli, con molta
probabilità la ricostruzione letterariamente più efficace e pregevole
dell'animus sia di Parvus che di Vladimir I. Lenin” (da: http://www.sitocomunista.it/marxismo/altri/parvus.htm).
Marguerite
Yourcenar, parlando della sua travagliata
scrittura di Memorie di Adriano, diceva
che ci son libri che puoi tentare solo dopo i quarant’anni. Solo Solženicyn
poteva capir ambedue: ci son libri che puoi scrivere solo se sei stato in un
gulag … Solženicyn riesce molto efficacemente a dipingere due “uomini del
sottosolo”, quel mondo russo che occorre capire, e che fu, in altra epoca, però
altrettanto efficacemente, dipinto da Dostoevskij in Memorie del sottosuolo, Dostoevskij che, pure lui, aveva fatto il
suo bravo soggiorno in un gulag, quello zarista, non così “perfezionato” (sic
…) come quello staliniano: ma ciò non fa che confermare quanto detto: ci son
libri che può scrivere solo chi sia stato in un gulag ed abbia vissuto “certe”
cose. Per esempio, Se questo è un uomo
è un libro che solo chi sia stato in un campo di concentramento nazista avrebbe
potuto scrivere.
Ma vi è un altro
punto interessante in quest’ultimo libro di Solženicyn: che riesce – molto efficacemente
– a dipingere l’alternanza che si verifica nell’animo di Lenin fra “ora è il
momento” e “no, non lo è”, una cosa snervante davvero, e che ricorda incredibilmente da vicino il “nostro”
tempo. Anche l’attuale Terza Guerra Mondiale “a pezzi” – con centro bloccato –
ricorda da vicino molto di più la Prima che la ben più dinamica Seconda …
Sui fondi dati a
Lenin e sul permesso germanico di passaggio per giungere in Russia (“come tanti
bacilli”, disse W. Churchill), cf. “I
finanziamenti segreti della Germania a rivoluzionari russi” in Appendice a R. Alleau, Le origini occulte del nazismo. Il Terzo Reich e le società segrete,
Edizioni Mediterranee, Roma 1989, pp. 295-299. Alleau dimostra la cosa citando studi diretti tedeschi. Su “Parvus”
(Aleksandr Helphand), che funse da mediatore tra il vertice tedesco e Lenin,
invece Alleau non dice molto, in nota i curatori italiani rimandano al testo
che, ancor oggi, rimane il miglior studio al riguardo: P. Zveteremich,
Il Grande Parvus, Garzanti, Milano
1989. Nel libro di Solženicyn il punto
di klimax è dato dall’incontro-scontro
fra Parvus e Lenin, dove il primo – gratificato dall’epiteto biblico (Parvus
era d’origine ebraica) di behemoth
per le sue dimensioni – cerca di sedurre il secondo, che però vuole “starci”
alle sue condizioni. Il che dimostra
l’incredibile talento politico “tattico” di Lenin. In parte, i dirigenti russi
rimangono così, la lunga permanenza del “comunismo” in Russia li ha resi ottimi
tattici, strateghi non altrettanto.
[7]
Ivi, pp. 104-105, corsivi in
originale.
[8]
Ivi, 106, corsivo in originale.
[9]
Tra l’altro, D. Salvatore Schiffer si è sempre interessato, ancor oggi, alla
Rivoluzione russa, come attesta questo recente articolo su Le Nouvel Observateur, intitolato “La fascinante histoire secrète
de la Révolution russe” (21 febbraio 2017), al link:
http://laveritedesmasques.blogs.nouvelobs.com/archive/2017/02/21/la-fascinante-histoire-secrete-de-la-revolution-russe-600382.html.
[10] Cf.
https://associazionefederigoiisvevia.files.wordpress.com/2014/03/il-e2809clibretto-neroe2809d-il-caffc3a8-30-dicembre-2003-anno-vi-n-48-274.jpg.
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