“E il mio maestro m’insegnò quant’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”.
F. Battiato, “Prospettiva Nevsky” (1980)
La scomparsa di Battiato non fa che confermarci quanto qui già detto più volte: il Novecento è finito, è finito qualsiasi tentativo – anche sbagliato – di rispondere alla sfida dei tempi, prevalgono da tempo invece tutte le forme d’accettazione dello status quo. Per quanto tempo ancora … vien fatto chiedersi …
Non per sempre. Non per sempre.
“Nel secolo ventunesimo, le stragi hanno sostituito i sacrifici. Punteggiano il corso del tempo, di un tempo informe, convulsivo, così come le cerimonie sacre punteggiavano il corso circolare del calendario. L’officiante può immolarsi con le sue vittime; o altrimenti può tenersi distante, quanto lo concede un telecomando. La strage può essere un atto fluido, conclusivo; o può esser elemento d’una serie. Il fondamento rimane uguale. Rispetto ad ogni altro atto – politico, bellico, diplomatico, sedizioso –, la strage offre una certezza: la garanzia dell’efficacia. E’ l’unico atto indubitalmente efficace, in mezzo ad innumerevoli altri atti di cui si può dubitare. E’ l’ancoraggio sicuro del significato. Il movente può esser totalmente privato e segreto; oppure totalmente pubblico e dichiarato. Ma la differenza è molto minore di ciò che accomuna i due atti [in realtà, non v’è differenza sostanziale]: la certezza che l’uccisione sia l’unico fondamento incrollabile, l’unico gesto provvisto di un senso sicuro [per questo, in questi dì, si stanno ammazzando]. Anche questo ha avuto origine in Grecia: a Sparta, dove «gli efori han licenza di scegliere tutti quelli che vogliono mettere a morte senza giudizio», secondo Isocrate. Atene, come sempre, fu più articolata – e certamente meno efficace: insinuò il concetto di strage distruggendo non vite umane, ma simulacri, nella notte degli ermocopidi. Ma ciò che accadde ai simulacri preannunciava quel che sarebbe successo ai viventi. Così una notte misteriosa, il cui segreto non fu mai svelato, annunciava la fine di Atene stessa”.
R. Calasso, Il Cacciatore celeste, Adelphi Edizioni, Milano 2016, p. 283, corsivi miei, miei commenti fra parentesi quadre.
Un interessante passo. “Il primo è l’ambito dei «gruppi», o, per esser più precisi, della Gemeinschaft. Una Gemeinschaft è quel genere di gruppo definito nei termini di una comunità (fittizia) che rivendica lealtà al di là degli interessi egoistici. Il canovaccio della storia del sistema-mondo moderno non è stato l’eliminazione delle Gemeinschaft, ma la loro subordinazione al primato di una particolare di esse, quella della «cittadinanza». Naturalmente la cittadinanza è stata interamente identificata con gli stati [punto decisivo]. In teoria, nel sistema-mondo moderno, per lo meno negli ultimi due secoli, ciascun individuo è stato cittadino di qualche paese, e in genere di un solo paese. Si sono avute eccezioni a questa norma, ma possono essere considerate anomalie. Naturalmente questa regola è ancor valida. La questione rilevate nel prossimo futuro [libro pubblicato nel lontano 1997 …] non è relativa alla sopravvivenza della cittadinanza [così è stato, il “populismo” da ciò viene: difesa della cittadinanza, ma in forma “esclusiva”] o alla sua capacità di assicurarsi la lealtà degli individui [infatti, di nuovo, tutti – dico tutti – i movimenti di sedicente “protesta”, “populismi” vari (di cosiddetta “destra” o di cosiddetta “sinistra”) derivano precisamente dalla richiesta di cittadinanza], ma dalla possibilità che essa continui in questo senso ad esercitare un rimato [ed ecco ciò ch’è stato pesantemente intaccato dagli effetti politici della pandemia]. Man mano che la capacità degli stati di soddisfare le richieste espresse dai loro cittadini si ridurrà [questo è ciò ch’è successo] (per le ragioni spiegate in precedenza), e soprattutto man mano che che la fiducia dei cittadini nella possibilità che lo stato possa soddisfare, e infine soddisfi, le loro richieste svanirà, è ovvio che le rivendicazioni di priorità da parte di altri gruppi, di altre Gemeinschaft, diverranno più persuasive. In effetti, come abbiamo sostenuto, questo processo ha già avuto inizio [libro pubblicato nel 1997, va ribadito] ed è alimentato da due fonti del tutto diverse. La prima è costituita dai timori relativi alla sopravvivenza [la “sicurezza” che, poi, sarebbe divenuta famosa], in una situazione nella quale gli stati sembrano meno in grado di assicurare sicurezza e stabilità [di qui vengono i “populismi” vari, da questa richiesta, la “difesa”]. L’altra è la richiesta di democratizzazione [di qui vengono i vari movimenti, fra cui quelli che spingono all’estensione dei cosiddetti “diritti”, mere, ormai, etichette, ma che tendono a far espandere il “circolo” della “cittadinanza” e della “sicurezza”, proprio mentre la sicurezza invece fa crescente difetto!, ecco la contraddizione che sta spaccando – dall’interno – il sistema-mondo – *moderno*, non ci si dimentichi di tale aggiunta!], la sensazione che gli stati abbiano deliberatamente ignorato le richieste di determinati gruppi [cosa vera, peraltro], che sono stati esclusi di fatto dai benefici goduti dagli altri cittadini [ed è stato (ed è) precisamente così, chiamo questo: la grande ipocrisia dell’Occidente, il vero motivo si è che non può esser che così, lo stato moderno non essendo in grado di “soddisfare le richieste” di “tutti i gruppi” né, tanto meno, di produrre un’ “eguaglianza” anche solo in modo sufficiente, perché un tal stato è basato sul dominio del capitalismo, il quale strutturalmente si fonda sullo scambio diseguale]. Entrambe le preoccupazioni conducono all’organizzazione militante di questi gruppi. Ma se la seconda porta i gruppi ad opporsi agli stati, la prima conduce i gruppi ad opporsi agli altri gruppi [ed ecco i “populismi” famosi, necessari per mantener il consenso, in quanto dirottano il dissenso dalla “forma stato” alla lotta fra gruppi diversi, tipo i populisti contro gli “immigrati” ed anche alcune ONG, un esempio fra i molti che son fattibili, il nocciolo è però questo: diversione del contrasto sociale nella lotta orizzontale fra gruppi diversi]. Il problema è che, nell’organizzazione sociale reale, il confine tra le due motivazioni non è netto [ed ecco le forme “miste”, fra le quali i “5 Stelle” in Italia, ma pure altre; difficile, nel concreto, distinguere le due “rivendicazioni”, questa è la realtà sociale concreta], e i gruppi concreti son spesso divisi tra loro sulla strategia da seguire [anche questo s’è visto: ed era prevedibile], dibattendo se l’obiettivo primario debba essere la difesa dei propri interessi (e pertanto la crescita del gruppo) o la democratizzazione (o eguaglianza [di cui si sente crescentemente parlare nella fase immediatamente post pandemica, per lo meno parzialmente post …, dopo l’esposizione impietosa delle diseguaglianze, cosa che la pandemia, la “pan de nostra” …, inevitabilmente ha prodotto]). Non è difficile raffigurarsi uno scenario nel quale sono all’opera tre forze: quelle che prediligono la crescita dei gruppi, quelle che prediligono la democratizzazione, e quelle che prediligono o status quo ante della «cittadinanza» (uguaglianza formale ma gerarchia de facto [i “pazzi per la democrazia” si segnino questa piccola frase, perché sta tutto qui; ah, la democrazia non è in grado di dare l’uguaglianza reale né di abolire la gerarchia de facto, quindi sarebbe bene non prometterla … “una semplice informazione” (Totò) …]. In una situazione di polarizzazione economica, di assenza d’uno stabile equilibrio geopolitico e di crollo di alcuni dei fondamenti ideologici del sistema-mondo, non è inverosimile che si osserverà un confuso alternarsi di lotte tra queste tre forze, sia all’interno degli stati che tra di essi, dotato [il conflitto] della capacità di autoalimentarsi [cosa peraltro non solo ch’è avvenuta, ma che avviene qui-ed-ora, intorno a noi, ogni forza sociale potendo essere classificata secondo queste tre coordinate, e in modo del tutto preciso]”, T. K. Hopkins – I. Wallerstein, L’era della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo 1945-2025, Asterios Editore, Trieste 1997, pp. 288-289, corsivi in originale, grassetti miei, miei commenti posti fra parentesi quadre. [*]
Non è il caso qui di approfondire gli altri “àmbiti” dei quali al tempo trattarono i due autori, salvo dire che uno riguarda la sanità globale, cioè la crisi che si vissuta e che – in parte – ancor si vive. Qui si vuol solo ragionare “politicamente”, cioè discutere della crisi della “forma stato” (moderna!), della quale scrive recentemente Cacciari: “Oggi lo Stato può rappresentare come ‘giuste’ le sue leggi soltanto nella misura in cui esprimano la sovranità della forma del contratto. La Norma non ‘trapassa’ altrimenti nel modo empirico”, M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi Edizioni, Milano 2020, p. 100, nota finale n. 5, corsivo in originale. La “sovranità”, oggi, è – in pratica – la “forma contratto”, lo stato è la “forma contratto”, forma erede – degenerata – del “contratto sociale”, tipicamente moderno. Ora, questa sovranità lascia intatta la forma della “cittadinanza”? Oppure non l’altera in alcune delle sue parti, per cui lo stato attuale – l’erede indebolito dello stato moderno – si trova dentro una contraddizione tra le promesse fatte, che continua, però, a fare, da un lato, e, dall’altro, la sovranità della forma contratto. Ed esso non è in grado di risolvere tale contraddizione, la cosa è chiara ed evidente “oltre ogni ragionevole dubbio”, come dicevano una volta il telefilm, “preistorici” ormai, anglosassoni. La forma contratto non risolve la crisi della forma stato moderna.
Questo è quanto.
La pseudo soluzione? Si continua con la tecnica digitale a tutto spiano, ma essa, in luogo di “risolvere”, acuisce la crisi della forma stato. Dunque nessun “Reset”, che implicherebbe una sorta di “nuovo inizio”, quanto invece un “Iperset”, e cioè un ulteriore protendersi vero una direzione già intrapresa.
Ma vi è un altro passo di Cacciari, che riguarda Fichte, e che si può ricollegare ad un post precedente, cf.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2021/02/la-manica-non-esiste.html.
Bene – veniamo al Cacciari passo – ad dunque: “Nulla è più lontano da Fichte di fughe occasionalistiche «dalla dimensione in cui si esplica il conflitto – cioè dal ‘politico’ – verso una sfera ‘superiore’» (Romanticismo politico, ediz. it., a cura di C. Galli, Milano, 1981, p. 235). E’ vero però che Schmitt tende ad operare una netta distinzione tra Fichte e il Romantico. E questo in qualche modo vale anche per Croce, pur propenso a ridurre la Romantik ad irrazionalismo”, M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, cit., p. 102, nota finale n°11, corsivi in originale. Croce non aveva capito niente (le solite scemenze sulla “condanna” dell’ “irrazionalismo”, spesso accoppiato al termine – malinteso, peraltro – di “romantico”, ridicolaggini cui si son dati per interi decenni!); ma, per lo meno, presentiva – seppur non pienamente – che Fichte ben poco avesse a che spartire con la “fuga” cosiddetta, fuga che stava però solo nella sua testa. Men che meno Hitler rifuggiva dalla lotta! Non scrisse, forse, il Mein Kampf? “La mia Battaglia”? Si capisce benissimo come i “liberalisti” – fra i quale v’era Croce – non potessero capir nulla di Hitler, di quelli come lui, senza contare l’errore palese di Croce, che gli va sempre ricordato; infatti, secondo “Croce […] l’ homo oeconomicus «non può avere una storia spirituale»! Weber ha spiegato quanto profonda ed agente nello stesso Economico sia l’azione dello spirito [in senso tedesco = “geist”]! Qui davvero la logica crociana dei distinti non sa pervenire alla comprensione dell’intero reale (das Wirkliche)”, ivi, p. 108, nota finale n°28, corsivi in originale.
La lotta è invece al centro del pensiero di Hitler, come Fichte lo è, basta vedersi quali libri sottolineava di più – l’ho già notato in un altro, precedente, post – fra i libri superstiti della sua biblioteca, oggi a Washington, negli Archivi. E Fichte vi era in testa: non può esser certo casuale tutto questo. Ma, dunque, allora, si pone una questione: qual sia la differenza tra questo “soggettivismo” – mai unicamente individuale (questo già dà un indizio, raramente notato) – e il soggettivismo quasi “assoluto”, quasi “solipsistico” del mondo della tecnica, del digitale, dei “social” … Questo è uno “snodo” decisivo, ben sapendo – chi scrive – quanto si faccia il “giochetto delle tre carte”, cercando di far passare il soggettivismo passivo ed impotente dei “social” e del digitale, per il soggettivismo, collettivo e potente, basato sulla distorsione di Fichte, sull’ “anima nazionale” e la sua sbagliata “riscoperta” (per dirla con Aurobindo), si fa questo giochetto, ma qual è, insomma, il punto? Dove si situa, precisamente, “la” differenza? Non è una domandina di scarso valore, qui-ed-oggi, hic et nunc.
Ne accenna Cacciari quando afferma “che proprio in Krisis [“La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, 1936, Hitler era già salito al potere (1933), e l’allievo di Husserl, Heidegger, aveva infine aderito al Partito nazionalsocialista, cosa che avrebbe generato mille polemiche, mentre Husserl – d’origine giudaica – non aderì anche a causa delle leggi razziali, pertanto il contrasto ha riflesso conseguenze anche politiche] Husserl finì col chiedersi se il «concepire il mondo come prodotto teleologico dell’Io» non fosse un realtà una mera follia storico-fattuale”, ivi, p. 105, nota n°18, corsivi in originale, miei commenti fra parentesi quadre. E lo è, lo è una “follia”, lo è davvero, ma il punto sta proprio alla radice – e di certo l’autore di Meditazioni cartesiane non poteva capirlo, né allora né mai – ma lo diventa se e solo se il “prodotto teleologico dell’Io” – una “proiezione”, insomma –, ed è precisamente qui che s’inserisce il mondo narcisistico del digitale, mere proiezioni. Per loro, dunque, la “magia” non è altro che una somma di tali “proiezioni” meramente individuali. Ma no! Non è affatto così! Per questa loro concezione – tuttavia legata direttamente a tutta una concezione dell’ “io”, per cui non son in grado di cambiare tale concezione, solo che, di conseguenza, si vietano di capir davvero “certe” cose – impedisce loro di fare la distinzione di cui si parla, impedisce loro di capire Hitler. L’ “Io” di cui parla Hitler, ed anche Fichte, non è l’ “io” meramente individuale, ma è l’ “io” della “nazione” – della “razza”, per dir meglio – una forza generale, del tutto reale, per quanto “soggettiva”, e comunicare – modificare, incidere, manipolare – questa “forza non materiale” implica l’aprirsi ad essa, attenzione, per cui la differenza “soggetto/oggetto” non può esser quella che tu esperisci quando guardi un oggetto distante da te e ti senti un “io” che lo sta guardando: non funziona in tal modo. E’, insomma, la stessa differenza tra chi ha un minimo di elettricità in un piccolo sistema chiuso (“soggettivo”, stavolta non nel senso filosofico che ha preso, ma in senso letterale) e l’avere una presa che ti porta invece ad aver accesso al magnetismo di un sistema ben più forte di te: così funziona. Il “magista” – dunque anche chi sa evocare dei “complessi ‘mythici’” dentro le folle, tra le varie applicazioni c’è anche questa – non vive della forza “sottile” che ha nella sua piccola anima, perché, in tal caso, non andrebbe mai lontano (ed i “magonzoli” dell’oggi questo fanno, tutto è “soggettivo” nel senso di effetto “psicologico”, ma il complesso mondo del cosiddetto “magico” non è meramente “psicologico”), quanto – invece – egli si riconnette a delle forze non individualizzate, in realtà, che “moltiplicano” le forze “animiche” individuali, dandogli dunque il “potere” di agire … come Hitler, che sapeva ipnotizzare le folle: tale forze non proveniva da lui. Tu ti riconnetti a tale maggior forza “sottile” per mezzo – ed ecco il punto . Di tuoi atteggiamenti anche “psicologici”, e qui c’è il punto debole. Non a caso ‘ste cose in Germania erano molto forti, più forti che nei paesi latini, laddove la “razionalità” – pedestre, “piatta e neolatina”, avrebbe detto Nietzsche – fa da filtro e “smorza” queste cose, la Germania (“storica”, non solo la nazione che – oggi – posta tal nome) di Paracelso, di Agrippa, di Faust … Il punto debole sta qui: che tu evochi forze che, poi, non sei più in grado di controllare, precisamente quel che successe a Hitler, precisamente … Ma non parliamo d’una forza meramente soggettiva! Men che meno del “rifugio” dalla lotta! L’esatto contrario … Essa è “la” lotta, lotta necessariamente “apocalittica”, e tutto è concesso per ed in tale lotta. Tutto. Non v’è limite, appunto. Tutto sta nel saper evocare in se stessi quei giusti “stati d’animo” che consentano di ricollegarsi alle giuste “forze”, ed allora superi la Manica, salti li ostacoli, vai in cielo, non c’è limite, appunto. Si tratta di saper “canalizzare”. Ciò è ben diverso dal mondo come mera proiezione dell’ “io” e del suo narcisismo solipsistico. Ben diverso. Confondere le due cose sa di grosso equivoco. Questo è del tutto distinto dall’altro discorso, discorso altrettanto vero, di Hitler che, a partire da un certo momento, “perde” questo “qualcosa”, non sa più “canalizzare”, trovandosi così crescentemente preda della sua sola forza “sottile” ce, come si sa, era limitata, com’è limitata per ogni uomo sulla Terra: ciò che ti dà forza “sottile” non sei tu … Puoi solo scegliere la Fonte, su questo sta’ dunque attento … chiaro se hai “sensibilità”, e – ringraziando Dio – la stra grandissima maggioranza degli uomini non ne ha … Come si chiedeva R. Alleau: quali sono le influenze (nascoste = “occulte”) che han dato accesso a dei fanatici – perché senz’alcun dubbio lo erano – a delle forze (“sottili”) capaci di far loro intraprendere un – folle davvero – tentativo di conquistare il mondo? Le forze della “contro iniziazione”, avrebbe risposto Guénon …
Ma torniamo al punto: il mero soggettivismo narcisistico digitale non è lo stesso del soggettivismo generale, collettivo, delle forze che ciò implica, di cui parlava Fichte, ed al quale Hitler s’ispirò, ma torcendolo in una senso para-faustiano senza dubbio. E, soprattutto, un tal soggettivismo “animico” non ha proprio niente a che spartire con un supposto “romanticismo”, cosiddetto irrazionalistico, portato alla “fuga” ed al rifiuto della lotta, cioè della “politica” lato sensu intesa: quando è vero l’ esatto contrario, invece! Considerazioni molto attuali, queste!
A buon intenditor …
Andrea A. Ianniello
[*] Il libro è ispirato – chiaramente – agli studi di F. Braudel, oggi spesso dimenticato, ed alla sua categoria del “tempo lungo” della storia, la “lunga durata” famosa, cioè i processi che si svolgono nel corso dei secoli, non gli eventi nell’immediato, critica fortissima della “storia evenemenziale” stessa, però critica svolta da un punto di vista diverso da quello della nouvelle école cosiddetta, che, in sostanza si è tradotta in un’ “esplosione” di saperi particolari, dimostrandosi però totalmente incapace di darci, dunque, il “senso della storia”, cioè del passaggio, per unità d’insieme dette convenzionalmente “epoche”, chiaramente convenzionali, ma non certo casuali.
Molto visualizzato questo post.
RispondiElimina