Nella speranza di dover – d’ora in poi, e/o “a
breve” – occuparci, qui (su questo blog), di **eventi**,
che cioè accadono, e non di “teorizzazioni”,
terminiamo, qui, con quel che segue, il riportare vecchi “contributi” di circa
venti anni fa, già riportati in precedenti post, uno del 1997 (ventun anni fa), un altro del 1998,
venti anni fa (fu l’anno della crisi asiatica e dell’introduzione dell’Euro,
due eventi correlati ed importantissimi), ed ora questo scritto del 1999 (19
anni fa, prima che il 2001 inaugurasse, con i ben noti eventi, la parte finale
della “Crisi del mondo moderno”, come la chiamava Guénon, questa lunga, lunghissima “Crisi del mondo moderno”[1],
questo tramonto che non tramonta mai).
Con questo “contributo”,
non scevro né “separabile” dal resto, però – sia detto a chiare lettere –,
penserei di porre un termine a quest’ “orientamento” delle “prospettive”, cui
ci si è – di certo improvvidamente, nonché assai
temerariamente – dati in codesto “picciol” blog, per usare qualche vetusta e
desueta forma poetica, per scherzo, per ironia, ovvio. Va, poi, precisato che l’espressione
“sottol. mie” corrisponde a: “corsivi miei”, il testo essendo da far girare in
modo privato, all’epoca, quindi un po’ grezzo.
Ma ho preferito comunque di farlo rimanere com’è,
per ragioni storiche.
Or dunque, ciò detto,
passiamo al riportare il vecchio scritto di diciannove lunghi anni fa.
Sia “ivi quivi”permesso
ricordar che la pubblicazione di questi scritti, mai pubblicati prima, per
quanto scritti molto prima, intende
ricollegare l’attuale situazione al dibattito di venti anni fa, con tutte le specifiche oltre che i
cambiamenti del caso: nulla si
ripete uguale, infatti, ma gli effetti delle decisioni e delle azioni del
passato si riverbera nel futuro. Ed anche questo è inevitabile …
Per chi fosse interessato,
buona lettura.
TERRA E MARE
CONSIDERAZIONI
SU
IMPOLITICO
E
COMMUNITAS
“Davvero quando sopra gli uomini c’è in cielo una contesa e possenti vanno le lune, allora parla il mare […]”.
Hölderlin, Mnemosyne
“Difficile
strada! Difficile strada!
Fra tanti
tralci quale tenere?
Nel gran
vento, tra l’onde sconvolte,
quando
tempo sarà,
alzerò la
mia vela dritta alle nubi,
passerò
al vasto mare”.
Confucio, Antologia Classica Cinese, di Ezra Pound
“L’ondata s’infrange e crollan le muraglie
Nell’azzurro paese del dio del mare,
Il risucchio della risacca sull’orlo delle rocce
Riparte verso la liquida immensità”.
La Saga di Kormak
1.
Impolitico e decisione
Pensare
vuol dire pesare, pesar le
conseguenze, soppesare gli sviluppi ed i viluppi del possibile. In tal modo, il
pensare può diventare fecondo, senza tuttavia che mai e poi mai ci s’illuda che il pensiero possa inverarsi ed
applicarsi in toto nell’agire. Detto
altrimenti: le due dimensioni vanno direttamente collegate ma restano ben distinte.
Distinte ma non separate. Le
considerazioni che seguono non vogliono fare altro che fermare dei punti base
per ulteriori possibili discussioni.
Oggi è l’epoca dell’impolitico. Senz’altro
abbiamo toccato quel “punto zero” (Nullpunkt)
del quale parlava Broch, “quel punto-limite, in basso al quale non è più
possibile procedere, [e che] costituisce, per forza di cose, la molla
contrastiva per l’identificazione d’una nuova forma politica” (R. Esposito: Categorie dell’impolitico, Il Mulino 1988, 2° ed. 1998, p.160). La
fine degli anni 80 e l’inizio dell’attuale decennio agli sgoccioli hanno
raggiunto il punto zero. Proprio per questo l’impolitico ha raggiunto il suo
compimento, ma proprio per questo
l’impolitico come dualismo insuperabile si muove verso una diversa direzione per forza di cose, per quell’interna necessità cui, per S. Weil, l’uomo non
può sfuggire[1].
Il pensatore che più di tutti ha percorso
l’impolitico nel nostro secolo è stato Battaille. In Battaille c’è tutto il
moto del nostro secolo al termine; e la sua crisi. Perché nega quella necessità, che S. Weil aveva invece ben
compreso, che porta l’impolitico oltre
se stesso, ma non verso un “ritorno”
al politico ed alle sue categorie oppositive (amico/nemico, rappresentazione,
ecc.). In questo senso, l’impolitico è la grande stagione negativa, di negazione
del moderno, però ancora moderna. “In
questo senso, la comunità è davvero l’estrema
figura dell’impolitico: incomunicabile, irriducibile […]. E tuttavia Battaille
non si ferma a questo dato: la sua intera opera […] è tesa all’infrazione
dell’interdetto” (ivi, pp. 308-309, sottol. mia). Per questa tensione che,
nell’estrema negazione (Battaille è
un pensatore dell’estremo), pure tende a superare il limite, non riuscendoci, è bene rilevarlo,
l’opera di Battaille è attraversata da un’intensità rara. E’ un’opera potente,
ma non nella direzione della volontà di potenza, bensì nella direzione
dell’intensità vitale, esistenziale.
Ma la grande importanza di Battaille è
un’altra: con lui termina il percorso del
pensiero moderno iniziato, non c’è dubbio, da Hobbes. In tal senso: il moderno sfocia nell’impolitico.
In che senso Battaille termina il percorso
iniziato da Hobbes?
Per Hobbes è la paura, che distingue dal “terrore”, la chiave di volta della
politica: “La paura non è solo all’origine
della politica, ma la sua origine nel
senso letterale che non ci sarebbe politica senza paura” (R. Esposito: Communitas, Einaudi 1998, p.6). La paura, per Hobbes, è paura della
morte, il cui opposto è l’istinto di
sopravvivenza. “Ma si vuol sopravvivere appunto perché si teme la morte. Già
Leo Strauss aveva riportato questo primato logico-storico della paura della
morte rispetto alla volontà di sopravvivere alla circostanza che è
identificabile un summum malum, ma
non un summum bonum, non avendo
l’ordine dei beni alcun limite reale” (ivi, p.5). “Ciò che gli uomini hanno in
comune – ecco la scoperta di Hobbes che ne fa il più strenuo avversario della
comunità – è la capacità di uccidere e, corrispondentemente, la possibilità di
essere uccisi” (p.11). La tesi di Hobbes è che, per avere la sicurezza, uno solo deve avere la possibilità di uccidere[2]. Tale
possibilità vien data al Leviatano da un contratto;
dire contratto vuol dire rapporto fra “eguali”, fra individui tutti sullo stesso piano, ciò significa la negazione stessa della communitas, cioè dell’avere in comune il
munus tra diversi. Questo punto è decisivo.
Il contratto è l’ossessione della modernità,
perché modernità vuol dire individualismo, cioè individui tutti sullo stesso
piano: è questo l’umanesimo. Per questo la modernità non ha mai
capito né il Medioevo né l’antichità greco-latina né i mondi extraeuropei, dove
tale “tutti sullo stesso piano” semplicemente non esiste. Il nostro secolo al termine ha visto lo scontro fra il
residuo del vasto battaglione umanista ormai al capolinea, e l’antiumanesimo
che, seppur con diversissimi accenti,
è comune a Heidegger, Battaille, S.
Weil. E’ il munus del nostro secolo
morente, il lascito del nostro millennio “terminale”, che ha visto il sorgere
dell’umanesimo in una luce bianca, lunare, ingannevole, ed il suo tramonto in
un lago di sangue, fra i miasmi di una terra infetta, in società scollate
sull’orlo dell’affondamento come vascelli squarciati.
Sartre e l’esistenzialismo si son chiusi in
una lotta persa in partenza a favore del soggetto e del cogito cartesiano. Quest’orientamento in politica è stato proprio
il comunitarismo, di “sinistra” o di “destra”, come ricerca del proprium da mettere in comune, cercato
nel futuro o nel passato. Ma se c’è stata communitas
e se può esserci communitas, è
proprio perché in comune non c’è il proprium,
ma invece il munus. La comunità nasce
proprio dal non avere in comune il proprium.
Al contrario per Hobbes è il proprium che conta, è l’individuo e la
sua “sicurezza”. La sicurezza è l’interesse, il proprium di ogni individuo. Questo è Hobbes e questo è modernità.
“Il contratto sociale è vincolante solo quando si realizza il fine nell’interesse del quale è stato stipulato, la sicurezza” (L. Strauss -
J. Cropsey: Storia della filosofia politica, Il Melangolo 1995, vol. II, p.151,
sottol. mie). Ora, per Battaille, è la morte
la chiave di volta della comunità, non
già perché io possa “vivere”, o percepire l’altrui morte, ma perché
quest’ultima, con la sua sola esistenza, “fora”, per così dire, il guscio duro
del soggetto ed apre al diverso da
sé. Si rompe ciò che la modernità ha voluto costruire con l’umanesimo: l’uomo
sedicente “umano e solo umano” si riconosce rinchiuso in una segreta. Ciò che
per Hobbes era la spinta ad andare contro
la communitas, per Battaille è ciò
che spinge alla communitas. Per Battaille non è più la paura della morte, cioè il
ritrarsi da essa, la chiave, perché la morte si palesa per lui come realtà inappropriabile: non c’è proprium della morte, non c’è “me” o
“te” né comunicazione fra due
soggetti; c’è solo il munus della
morte in comune. Nonostante quest’enorme differenza d’atteggiamento fra Hobbes
e Battaille riguardo la morte, resta il fatto che questo stesso differente
atteggiamento ci permette di misurare
il cammino percorso fra i due pensatori, uno all’inizio e l’altro al termine
della modernità.
Un excursus.
Contrariamente al pensiero riduttivista
di tutta la modernità, che tende a ridurre la psiche umana ad un solo movente
(ad esempio la paura per Hobbes), per Battaille ala psiche umana ha due spinte contrastanti, in reciproco
instabile dinamico equilibrio: “L’uomo viene al mondo ritagliando la propria
identità nella continuità del non essere da cui scaturisce. La sua vita, in
altre parole, coincide con i limiti che lo separano dagli altri facendone
quello specifico che è. Perciò egli è costretto a difenderli per garantire la
propria sopravvivenza. […] Quest’istinto di conservazione, tuttavia, non
esaurisce la sua esperienza – anzi ne costituisce il vettore meno intenso, perché puramente biologico: cui s’intreccia una pulsione
tutt’affatto contraria che, senza
annullare la prima, le si oppone sordamente. In questo modo si verifica la
paradossale situazione che l’individuo desidera ciò che teme – appunto perdere
i limiti che lo ‘fanno’ essere […]. Da qui una perenne contraddizione tra
desiderio e vita. La vita in ultima analisi non è che desiderio (di comunità),
ma il desiderio (di comunità) si configura necessariamente come negazione della
vita” (Esposito, Communitas…, cit., p.138, sottol. mie).
Pertanto vi è, come già osservato, un legame diretto fra comunità e morte per
Battaille.
Ma psicologicamente,
si diceva, la posizione di Battaille centra
l’uomo molto di più del riduttivismo moderno. Non si può non notare che in ogni essere umano c’è la lotta fra
queste due spinte, quella biologica ad appropriarsi,
e quella comunitaria, a condividere.
La ricerca d’una loro difficile armonia
sembra uno degli scopi dell’esistenza umana. La filosofia cinese della dualità
complementare yin-yang è molto meglio equipaggiata per cercare
tale difficile armonia, eppur possibile. Quanto a Battaille, egli
cercava la rottura dei limiti
dell’individuo, del principium individuationis, ma verso il basso e
verso la morte.
Comunque sia e qualunque cosa si pensi di
Battaille, di fatto queste due spinte
lottano nell’anima umana. L’uomo privo della possibilità d’esprimere la sua
tendenza comunitaria sente che la vita gli sfugge, che gli manca qualcosa, che
il senso vero della vita gli è precluso; a ben vedere, la gran parte delle
patologie attuali e dello stato di deragliamento, disperazione, nevrosi, quasi
un sonnambulismo diffuso che colpisce in particolare la cosiddetta “gioventù”
(a partire dalla “frattura sociologica” degli anni ’60), deriva dalla negazione del bisogno alla comunità (come munus in comune, beninteso)[3].
D’altra parte, l’uomo non può negare la sua realtà biologica, che lo spinge
alla ricerca del proprium, perché, se
negasse tale realtà, quest’ultima romperebbe le difese ed imporrebbe il suo
scotto. Su questo scoglio si sono arenate tutte le ricerche della comunità non
intesa come mera “comune appartenenza”.
La retta via è uno stretto sentiero fra Scilla e Cariddi. E’ la ricerca,
difficile ma non impossibile, di
un’armonia fra lo yang della
dimensione comunitaria e lo yin di
quella biologica. Armonia possibile perché lo yang della dimensione comunitaria ha una lato yin e lo yin della
dimensione biologica ha un lato yang.
Ciò rende possibile non la comunicazione,
ma la corrispondenza, dovuta alla
loro specularità.
La comunità come proprium in comune di cui ri-appropriarsi perché se n’è stati
ex-propriati, è il chiodo fisso della sinistra storica. Le radici di questo
pensiero e del suo fallimento storico sono in Rousseau. Difatti: “La struggente
esigenza roussoviana di comunità si rovescia nel suo mito. Nel mito […] di una
comunità trasparente a se stessa in cui ciascuno comunica all’altro la propria
essenza comunitaria. Il proprio sogno di assoluta autoimmanenza. Senza nessuna mediazione, filtro, segno che
interrompa la fusione reciproca delle coscienze; senza nessuna distanza,
discontinuità, differenza nei
confronti di un altro che non è più tale perché fa parte integrante dell’uno” (Esposito, Communitas…, cit., p.47, sottol. mie). Senza l’Altro, insomma. E’
il sogno della sinistra, che ancora attira qua e là, dell’autonomia, dell’autogoverno,
dell’autarchia[4]. Ciò perché la
critica di Rousseau “all’individualismo hobbesiano resta di fatto interna al
medesimo paradigma, com’ebbe ad osservare già Émile Durkheim: quello d’un
individuo chiuso nella sua perfetta compiutezza. E’ vero, infatti, che egli
spezza il nesso consequenziale tra individualismo e assolutismo stabilito da
Hobbes: ma lo fa attraverso una ridefinizione dello stato naturale connotata in
chiave ancora più assolutamente individualistica” (ivi, p.44).
In
linea molto generale, Hobbes e Rousseau sono i generatori della dualità
destra/sinistra interna alla
modernità. La destra si basa sul legame fra individualismo e assolutismo, la
sinistra fra comunitarismo (come proprium
in comune, beninteso) e individualismo. Son due percorsi giunti al capolinea, di fatto divenuti sterili. Rimangono
ancora alla base della politica d’oggi, che però li usa svuotati di senso e
valore. A conti fatti, non ci son che sue strade: o, prendendo visione del
collasso delle categorie politiche, ridurre la politica stessa a mera gestione
dell’esistente, e questo accade oggi,
oppure prendere la strada dell’impolitico.
A maggior ragione, dunque, oggi è l’epoca
dell’impolitico. Ma un impolitico che non sia solo pensiero negativo, perché oggi è altresì l’epoca
della decisione. Per questo è un grosso errore confondere l’impolitico
con l’antipolitica oggi dominante, antipolitica che va perfettamente d’accordo con la politica contemporanea, cioè con la
mera gestione dell’esistente senza nessuna idea. La crisi di quest’ultimo
antimodello nasce dopo l’’89, quando i problemi che vengono al pettine sono globali, cioè richiedono una visione globale, son cioè irrisolvibili con la mera gestione
dell’esistente[5].
Questo provoca la spoliticizzazione, con la
conseguente risposta falsamente “critica” dell’antipolitico (con la sua
ridicola retorica dell’andare “tra la gente”). Il fatto è che “la
spoliticizzazione è la forma politica entro cui si determina l’autonomia
dell’economico. Questa non si sviluppa naturalmente, ma ha bisogno di una forza
(politica) capace d’istituire e
conservare le condizioni generali entro cui funzionare” (Categorie…, cit., p.13, sottol. mia). La spoliticizzazione è
l’effetto del predominio della politica moderna. Dovunque ci si giri, l’unica
cosa che davvero conti è fuoriuscire da questa gabbia di ferro che sta sempre
più affondando. e solo una prospettiva impolitica (quindi davvero politica) può dare questa possibilità. Ma un impolitico che
sappia evitare l’altro grande scoglio: il pericolo “gnostico”[6]. E’
il pericolo del dualismo. Se: “l’impolitico non è diverso dal politico, ma è il
politico stesso guardato da un angolo di rifrazione che lo ‘misura’ a ciò che
esso non è né può essere” (ivi, p.XXI), e quindi assegna un limite al politico, allora: “L’ipotesi gnostico-dualistica nasce allorché l’accento
batte tutto sull’[…]accezione […] separante del limite” (ibid.). Il che fa
sorgere appunto uno scoglio molto grosso, sul quale non ci si può che
infrangere. Difatti: “Se così dovesse essere, l'impolitico non soltanto
perderebbe tutta la sua carica decostruttiva, ma si dissolverebbe
completamente. La direzione da prendere passa piuttosto per un’intensificazione
del limite differenziale – ma insieme per il suo ribaltamento interno […]:
divisione ma insieme unione tra ciò
che divide” (ibid.). Allora sì che la cosa diventa feconda (di possibilità e sviluppi).
E’ questa la direzione che si cercherà di
seguire, con una differenza importante. Questa direzione, dal mio punto di
vista, si può perseguire se si collega l’impolitico alla decisione: è qui che
l’impolitico perde la sua negatività. Detto altrimenti: la consapevolezza dei
limiti costitutivi del politico, della sua “costitutiva diabolicità”, della
“sua irriducibilità a ‘simbolo unitario’” (ivi, p.XXVI), non può bloccare
l’esigenza di decidere, anzi le dà il suo
vero senso. Non è più decisione “assoluta”; non perciò non è più decisione.
Decisione nel senso di Schmitt: ha la
sovranità chi decide dell’eccezione, del caso eccezionale, non della norma. La politica (ed anche l’antipolitica) è in crisi
esiziale perché non sa né può rispondere alla situazione
“eccezionale” post 1989. Deduzione: la politica non ha la sovranità. Effetto:
sempre maggior disaffezione della “gente” dalla “politica” (lato sensu). E’ la percezione istintiva
delle masse che la politica non ha la sovranità. Si recupera ciò non certo “andando tra la gente”, cioè
ulteriormente disperdendosi, ma decidendo
del caso eccezionale, vale a dire dimostrando che si ha la sovranità. Tutta qui
è la crisi.
Ma continuiamo sulla decisione di Schmitt.
“La tesi da lui avanzata nel saggio su Cattolicesimo
romano e forma politica è, infatti, che la Modernità perda presa sul
politico appunto per la rottura di quel filo che in passato – e oggi solo nel
cattolicesimo di Roma – rapportava la decisione politica ad un’‘idea’ ad essa
esterna” (R. Esposito: Nove pensieri sulla politica, il Mulino
1993, p.23). Quest’idea di Schmitt è giusta, e Guardini la condivide. Anzi, per
Guardini Cristo è decisione. E la
Chiesa è rappresentazione di Cristo.
Di conseguenza, l'unica potenza che può “decidere” oggi è la Chiesa.
Ma ecco la crisi della Chiesa: poiché
rappresenta Cristo, cioè poiché ha “la capacità di creare nuovo diritto” (Esposito,
Categorie…, cit., p.43), con
l’emergere della secolarizzazione, con la conseguente spoliticizzazione, la
chiesa non riesce a padroneggiare la parte emersa dell’intero gigantesco
processo: la tecnica. Quest’ultima,
pur non essendo il politico, tuttavia
ne è una parte essenziale ineliminabile. Qui si divaricano le posizioni di
Schmitt e Guardini, pur convergenti nel riproporre la Chiesa come unico vettore
per superare l’esiziale china dell’epoca, si divaricano. La soluzione proposta
da Schmitt è quella di una specie di “patto”, se così si può dire, fra la
Chiesa, di cui si salva l’idea
antimoderna di una decisione non immanentistica, ma si rimane all’interno della
modernità in un tentativo di costruzione di uno stato totalitario, unica
risposta in grado, per lui, di gestire l’emergenza
della tecnica[7]. La soluzione di Guardini
è invece utopica, è quella di una nuova sintesi che renda l’uomo “capace di dominare il proprio potere. E’
rispetto a quest’esigenza, precisamente, che è ‘naufragato’ il Moderno. Questo
è stato il limite fondamentale, espresso dalla rottura della bipolarità
uomo-Dio a favore del primo termine […]. Il rifiuto di Dio ha significato, per
l’uomo moderno, il rifiuto a governare il proprio potere” (ivi, p.62). Questo
rifiuto conduce all’indecidibilità,
cioè a quella situazione di stallo nella quale siamo precipitati dal primo
conflitto mondiale e dalla fine della centralità dell’Europa, dalla fine dello Jus Publicum Europæum[8], quel “passaggio
d’epoca non ancora concluso” (ivi, p.72).
Ciò su cui Guardini fa centro è questo: l’impossibilità di risolvere (= sciogliere)
la Modernità con l’immanentismo che la caratterizza[9]. Il problema è che
la logica dialettica separativa occidentale non riesce a padroneggiare il nodo
della modernità, nuovo nodo di Gordio; ma chi lo taglia avrà la sovranità
sull’Europa. Anche qui Guardini trova un suo spunto davvero interessante: è
l’idea di opposizione bipolare, dove Guardini si avvicina all’idea
dell’opposizione complementare yin-yang.
“L’essere è unito […] esattamente da ciò da cui è diviso. Da
qui si diparte […] l’intera trama discorsiva […] intorno alle due leggi
fondamentali: 1) la realtà è dominata dal principio di opposizione bipolare […];
2) ma tale opposizione non è mai semplice contraddizione […], alterità
assoluta” (ivi, p.50).
A Guardini manca la nozione di
complementarità, dove, attenzione,
nella logica yin-yang non c’è, come
talvolta si crede, solo complementarità, ma pure opposizione concreta, che però è un caso minore della complementarità. Pertanto: cos’è che deve intervenire perché la
decisione accada e il nodo sia
tagliato? Il nodo non si salda opponendoglisi ma seguendolo in modo tale da
rompere il suo ritmo nel punto più debole. Con la sola logica oppositiva il
problema rimane bloccato, e l’indecidibilità totale. Pertanto la tendenza
esiziale dell’epoca non fa che crescere.
Ed è qui che si pone l’intuizione guardiniana
del naufragio, che, a suo modo, lo lega con tutti i
pensatori dell’impolitico, con la “metamorfosi” di Canetti per esempio, o con
Battaille. La differenza è che Guardini è molto più politico[10].
Come insegna la logica yin-yang non è avversando il naufragio, bloccarlo è impossibile d’altra
parte, che si risolve (cioè scioglie)
la situazione, il nodo mortale, il viluppo inestricabile serrantesi. Al
contrario, è accettando il naufragio
che ci si salva.
Un’Europa su base “cristiana” può essere non costruita, ma ricercata; ma
un’Europa che accetti il naufragio. Questo chiude la porta anche alle ideologie
“laiche”, che hanno “immanentizzato” la tendenza accentratrice ed
“esclusivista” del cattolicesimo, tradendone
l’aspetto di trascendenza, quindi la decisione.
Difatti, tali ideologie residuali non “mordono” la situazione e sono incapaci
di “decidere” sul nuovo disordine mondiale, che non si può curare con
interventi militari e basta[11].
L’Europa e l’Occidente moderno non possono
più considerarsi presunti “maestri” del mondo. Ma, d’altra parte, se ben inteso
il senso dell’attuale situazione, proprio il garbuglio fiammeggiante in cui
siamo rende impossibile il ritorno a qualsiasi forma di cosiddetta “teologia
politica”, cioè d’identificazione di bene e potere. Quel che torna prepotente, temibile inviato che non accetterà di farsi da parte, è l’esigenza
di decidere, quindi la necessità di una
trascendenza, che però non
s’invera in uno Stato, in una Chiesa: per questo ogni “teologia politica” è
improponibile. L’origine è sempre tale, sempre attuabile di nuovo, mai però
compiutamente definibile, circoscritta. E difatti, tutta la logica della
modernità è definita dal processo di allontanamento dall’origine[12].
Anche se ciò non è sempre vero alla lettera, e che tracce dell’origine
permangono persino nella modernità, è questa la caratteristica generale e
dominante della modernità. Ripeto: che ci siano “controcorrenti” è verissimo,
ma è un altro discorso.
Il punto è però questo: definirsi come allontanati al massimo
dall’Origine non elimina il problema dell’Origine, che riesplode al termine dell’avventura/disavventura della modernità come problema della decisione, decisione nel naufragio. Quindi decisione che non ci toglie dal naufragio, decisione che è l’accettazione dell’occasus, occasus che è altresì grande
occasione e grande politica. L’impolitico si lega con la grande politica e
di nuovo ancora, prova del nove, si dimostra l’abisso che divide l’impolitico
dall’antipolitica.
Questo Cacciari l’ha compreso molto bene:
nell’accettazione del tramonto (occasus)
l’Europa può ri-conoscere il destino, e questo può essere il germe della ricostruzione dell’Europa.
Ma, essendo la decisione anche
volontà, e la volontà necessariamente plurale
(Arendt), quindi decisione di accettare l’occasus,
ecco che destino e volontà si riconciliano. L’occasus è “uccisione” e “tramonto” (l’Occidente è e rimane Abendland[13]), cioè
accettazione della morte. Ora, la morte comune
è la chiave della comunità per Battaille, l’unica cosa in comune che non sia
“soggetto”, questa costruzione concettuale cordialmente rifiutata dal nostro
secolo[14].
Siamo come negli Atti degli Apostoli (27, 13-26) quando la nave non può che
naufragare ormai: “Ogni speranza della nostra salvezza era ormai perduta” (Atti, 27, 20). Non è la vita
navigazione? Il mondo nave? La storia mare, che i venti da tempo agitano in
periodiche tempeste più o meno forti?
E’ la
decisione di Paolo di Tarso di accettare il naufragio la chiave della salvezza
(l’approdo sull’isola di Malta). Pochi hanno riflettuto sulla grandezza di
quella decisione: senza quella decisione
non vi sarebbe Cristianesimo. Non c’è altra via oggi che accettare il
naufragio, salvo procedere per sentieri morti o perdersi in tentativi rétro (l’errore di Evola[15]),
perché bisogna “non tradire il presente, non tentare utopiche fughe o deboli
disincanti” (Esposito, Categorie…, cit., p.123), come
giustamente pensava la Arendt (ma questo è uno dei pochi punti che abbiamo in
comune…).
E’ una decisione sostanziale ma ormai non più procrastinabile perché irrinunciabile. E’ un vasto processo che
non si può certo “iniziare” a livello personale, sarebbe peccare di quella
vanità che, per Weber, è l’errore più grave del politico, ma un processo in cui
ci si può inserire, che comunque si può seguire.
Siamo nell’esilio. Però alla sentinella
d’Isaia (M. Weber: Il lavoro intellettuale come professione,
Einaudi 1990 (1948), p.42) si può rispondere: “è notte, ma laggiù vi è il
barlume dell’aurora. Verrà il giorno, ma non sei tu a portarlo”. E qui precisamente che si pone il concetto
di capo carismatico (affine ma più vasto dell’eroe di Lutero), che è una
costruzione idealtipica e come tale neutra. Ma non si può ignorare il senso in cui Weber avrebbe auspicato che il capo carismatico si
sarebbe dovuto presentare: come spinta a rompere la “gabbia di ferro” dello
sviluppo tecnico-capitalistico, perché “alla fine di tale sviluppo immane” ci
siano “profezie nuovissime o una possente rinascita di antichi pensieri e
ideali” (M. Weber: L’etica protestante e lo spirito del
capitalismo, BUR, p.241), e non
ci sia invece “una pietrificazione meccanizzata” (ibid.)[16].
Ma infine quest’ultima si è avverata, la
pietrificazione della gabbia di ferro; i tentativi di tirare il nodo scorsoio
non sono approdati che a renderlo più stretto, o ad equivoci terribili.
La decisione è accettare l’occasus, che dà la grande occasione, il
passaggio d’epoca, il passaggio di Capo Horn, che non salverà la nave, ma farà raggiungere Malta, mundi umbilicus. Difatti, i vari venti
del Mediterraneo prendono i loro nomi a seconda di dove spirano rispetto a Malta.
In fine
Initium.
2.
Communitas
Senz’altro ha ragione la Arendt, l’impolitico
implica “non tradire il presente, non tentare utopiche fughe o deboli
disincanti, restargli fedele” (Categorie…,
cit., p.123). E’ un punto decisivo,
dove si può attuare la decisione (il
“taglio”), dove personalmente mi differenzio sia da una certa sinistra
“utopica” che da una certa destra “del debole disincanto”[17].
Restar fedeli al presente, ma “senza […] riempire ‘progettualmente’ la lacuna
scavata tra passato e futuro. Quel vuoto, quello scarto, quella distanza, va
dal pensiero salvaguardato: perché solo in questo modo può proteggersi dalla
forza prevaricante dell’esistente […]. […] Quest’assenza nel presente, […] questo scarto da ciò che pur esiste […], può
assumere il nome d’impolitico” (ivi, pp.123-124).
Ciò non
significa staccarsi dal presente, ma conservare una distanza da esso; quindi rinunciare
all’impossibile “inverarsi” del pensiero di cui si diceva all’inizio del
presente studio. Ma questa distanza libera dall’insostenibile pressione d’un
presente tumultuoso per mezzo dell’accettazione
del naufragio. Ed ecco che l’impolitico si mostra sommamente “politico”,
“agente”, decisivo: l’unica
dimensione oggi da cui ed in cui si possa operare la decisione di
cui parlava Schmitt, il passaggio epocale non ancora conchiuso, non ancora deciso, ma il cui decidersi non è più prorogabile (dopo l’’89 e questi dieci anni d’indecisione). In quest’ottica, si può
porre il pensiero della communitas
(le cui linee generali si è schizzate nel punto1). Ora, sorge la questione:
come si pone il pensiero della Weil nel discorso d’un impolitico attento alla
dimensione della communitas?
Questo è il punto che si vuol focalizzare.
Prima, però, è opportuno precisare qualcosa
in più su Schmitt. A mio avviso, è del tutto sbagliato ed inaccettabile parlare
di “politicamente corretto” a riguardo d’un pensatore qualsiasi. Perché, chi stabilisce chi è “corretto” e chi
non? Ecco un ennesimo esempio di vero e proprio oscurantismo generato dalla tirannia del “pensiero unico”:
oscurantismo dolce, soft, e perciò
tanto più “colloso” ed opprimente come un’afa che toglie il respiro, che lascia
solo due alternative: starsene a casa chiusi o conformarsi. Muoversi non è
bene, non già perché qualcuno lo
proibisca, ma perché quel “qualcuno” ha costruito condizioni tali che muoversi
è dispendiosissimo: ogni minimo movimento fa sudare.
Ciò non
significa che il pensatore che prende una certa posizione non se ne assuma la
piena responsabilità, ma che non tutto il suo pensiero si può collegare a
quella scelta fatale. E’ il caso di Schmitt: vi è lo Schmitt di Der Begriff des Politischen e quello
teorico dello stato totalitario (non
autoritario: l’una cosa è diversa dall’altra come Schmitt da Hobbes). La
critica di Schmitt al liberalismo è giusta,
la dottrina delle fasi della modernità condivisibile.
Ma l’errore di Schmitt fu quello di vedere nel Nazismo l’alternativa a
comunismo e liberalismo: qui sbagliò, ma la
sua critica rimane giusta, né quella critica implica che si debba credere che il nazionalsocialismo sia
l’alternativa alla spoliticizzazione.
Rimane il problema della
spoliticizzazione, che anzi è cresciuta sempre più divenendo sempre più
radicale. Rimane il problema centrale
di dare alla politica un ruolo non succube all’economia ed alla tecnica. Il liberalismo non è stato capace di
risolvere il problema; il pensiero unico è l’istituzionalizzazione del
ruolo succube della politica.
Secondo Schmitt, e son d’accordo, al XIX sec.
Dominato dall’economia, succede il XX dominato dalla tecnica. Com’è ben noto,
la categoria del politico è basata sul rapporto amico/nemico; quindi il
contrasto è ineliminabile dalla dimensione politica. Si cerca dunque di gestirlo.
Controllare il contrasto è stato lo scopo dei tentativi che la modernità ha via
via tentato di secolo in secolo, passando dal pensiero filosofico (XVII sec.) a
quello morale (XVIII), all’economia (XIX) ed infine alla tecnica (XX). La
marcia della modernità passa di fallimento in fallimento. Nel nostro secolo ha
fallito la tecnica: nel capirlo Schmitt non sbagliò; sbagliò la cura, non la diagnosi. Oggi, in questo secolo
morente, alla fine del millennio, la tecnica si è dimostrata incapace di
gestire il contrasto, quindi pure la guerra. Invece l’amplifica e la raffina
insieme, la rende “totale”, come Hitler per primo capì: la guerra “totale”,
parallelo della “mobilitazione totale” (E. Jünger) provocata del predominio
della tecnica nella società. La mobilitazione totale Schmitt la chiama
spoliticizzazione.
La tecnica continuerà, ma, inesorabile, è cominciato il suo
declino, il suo esser estromessa dal
centro del quadro politico. Nessuno più oggi può credere che un aumento della
potenza tecnica implichi una diminuzione del conflitto: è la fine del
“progressivismo” post secondo conflitto mondiale. Nessuno ci crede più nella
mente subconscia, però a parole moltissimi rimangono ancorati a tale credenza
in crisi esiziale. Con tale credenza è in crisi esiziale il “sorridente” (per
usare questo termine ironicamente alla Weber) progetto illuministico.
Quanto
alla società, la gabbia di ferro paventata da Weber si è realizzata grazie al
progressivismo, le rivolte degli anni ’60 e ’70, l’ultimo sprazzo di movimento
millenaristico neognostico
(l’interesse per l’Oriente, falso o vero, è stato segno chiaro), non hanno
potuto nulla[18].
Alla pietrificazione dell’Occidente, e con
esso del mondo, Weber vedeva nella dimensione politica l’unica da cui poteva
venir fuori quella “creatività individuale, che nella sua espressione più
forte, è carisma[19] […]. Ma la partita
decisiva si giocava nella sfera politica; perché di lì potevano venire le idee,
i valori e gli impulsi per superare l’esiziale tendenza dell’epoca” (L. Cavalli: Carisma. La qualità straordinaria del leader, Laterza 1995, p.86).
Quest’idea di Weber è stata molto malintesa
nel senso di vedere fra democrazia e càrisma
un contrasto assoluto, equiparando càrisma
e dittatura, leader carismatico = A. Hitler. In primo luogo, il càrisma può emergere solo in situazioni
straordinarie, ed inoltre è una qualità temporanea,
che si trasforma, dopo la morte del suo ricettacolo, in un’istituzione. In
secondo luogo, “Weber vedeva il potere monocratico del capo del governo,
presidente o premier, collocato in un sistema costituzionale che stabiliva
controlli e limiti […], in un quadro di effettive libertà e di regolari
verifiche elettorali. E, inoltre, non si attendeva che quel tipo di democrazia
producesse uno dopo l’altro leader carismatici nel senso sopra definito, ma che
consentisse a chi aveva siffatta
natura di emergere e di governare con reali poteri e corrispondenti, pubbliche
responsabilità” (ivi, p.88, corsivo mio). Ora, “il fatto è che, per una serie
di ragioni i sistemi politici occidentali non producono leader con la
creatività, l’energia e il fascino che la crisi mondiale urgentemente richiede”
(ivi, p.98). Le ragioni sono tante, ma una più di tutte: la dittatura
ideologica di fatto del liberalismo, l’oscurantismo soft del pensiero unico. Chi, per suo ineliminabile guaio, avesse
del càrisma, non potrebbe di certo
esser “populista” (Bossi, Berlusconi, per esempio), né potrebbe seguire
l’oscurantismo soft che schiaccia la creatività individuale.
Troverebbe allora tutte le porte chiuse, perdendosi così la possibilità, che
solo il càrisma può dare, di una
soluzione creativa, mentre la classe dirigente non può che per inerzia
continuare ad agire nell’unico modo che conosce.
Il càrisma
non è né bene né male, il capo carismatico è un Giano bifronte (Cavalli). Ciò
che questi apporta è il mutamento, in
un senso o nell’altro; è l’elemento yang.
Secondo la tradizione dell’Asia orientale, visione polare cioè non-dualista,
lo yang non è “bene” e lo yin non è “male”; son tutt’e due necessari, ognuno però conservando la
sua natura. Senza lo yang non c’è
mutamento, la prevalenza dello yin
generando inevitabilmente inerzia[20].
L’eccesso è la pretesa di monopolizzare tutto oppure di occupare il ruolo
dell’altro principio polare indebitamente: ecco il male. Ci può essere dunque
un eccesso di yin come di yang; ma è solo dallo yang che può venire la spinta creativa e
creatrice a modificare, ad operare nuove combinazioni. Nel rifiutare lo yang ci si vota all’inerzia; ma, in tal
modo, si rifiuta pure un aspetto necessario dell’essere. La volontà, dunque,
diventa volere il non essere. Ma chi vuole il non essere vuole anche non
essere; vale a dire che dietro tutto ciò vi è di fatto una tendenza
autodistruttiva, tendenza enorme che ha inglobato nelle sue fangose spire il
nostro mondo sin dall’epoca del primo sorgere del progetto illuministico. Tale
tendenza doveva chiarificarsi nel corso del tempo, per poter poi emergere nuda
e cruda nella sua collosa viscidità con la fine dei tempi moderni, cioè nella
nostra epoca.
Il capo carismatico è spinto dalla sua
creatività ad agire; può così tentare l’impossibile, può allora fallire, perché
se lo yang apporta il mutamento è
però più instabile dello yin, che
dunque ha un suo ineliminabile aspetto positivo,
fornendo per così dire la “qualità media” e quindi la stabilità. “E’
perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storico, che il
possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse l’impossibile.
Ma colui il quale può accingersi a quest’impresa dev’essere un capo, non solo,
ma anche – in un senso molto sobrio della parola – un eroe. E anche chi non sia
né l’uno né l’altro, deve foggiarsi quella tempra d’animo tale da poter reggere
anche al crollo di tutte le speranze, e fin da ora, altrimenti non sarà nemmeno
in grado di portare a compimento quel poco che oggi è possibile. Solo chi è
sicuro di non venir meno anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista,
è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuol offrirgli, e di poter ancora dire
di fronte a tutto ciò: ‘Non importa, continuiamo!’, solo un uomo siffatto ha la
‘vocazione’ (Beruf) per la politica”
(Weber: Il lavoro…, cit., pp. 120-121)[21].
Beninteso: volere l’impossibile non è voler forzare il proprio tempo, ma
porglisi sopra, guardare al di là di esso senza però negarlo.
La figura dell’eroe, ma “in senso molto
sobrio” (Weber), come capo carismatico vero
(a differenza del falso carismatico populista) e positivo (a differenza del carismatico distruttivo alla Hitler)
Weber l’ha elaborata anche sotto lo stimolo dell’eroe di Lutero, “l’agente del
rinnovamento, il distruttore del vecchio abito e sarto del nuovo, […] chiamato Wündermann oppure vir heroicus” (Strauss -
Cropsey, cit., p.79).
Egli non è il superuomo di Nietzsche né
l’eroe di Carlyle, ciò perché: “la sua autonomia dalla legge e i suoi poteri
d’innovare e ricostruire provengono non da lui medesimo, ma dalla scelta
operata da Dio nei suoi confronti, e dalla sua diretta dipendenza da Dio. […]
le sue doti superiori son pur sempre doti”
(ivi, pp.79-80). Nietzsche, nell’esaltare il vir heroicus, gli toglie il valore proprio, perché si può imporre
la propria volontà personale in modo legittimo solo se si fa appello al
trascendente, allo straordinario, comunque inteso. Nonostante la visione
cristiana, che riduce il campo, tuttavia la concezione di Lutero è più vicina a
quella antica, che vedeva nell’eroe l’essere semidivino mediatore temporaneo fra uomo e divinità[22].
Ma c’è un altro punto da sottolineare: l’eroe
“non costituisce alcun modello per la gente comune, e mal incolga all’uomo che,
senza uno speciale appello di Dio, tenti di scimmiottare l’eroe” (ivi, p.79).
Questo è un punto molto importante, perché qui cadono sia Evola che Jünger:
l’eroe non è uno stato predicabile,
così come il càrisma non può essere
di tutti per principio. Lo status di heros è un fatto personale, ma donum
(e non munus). Come donum,
quest’ultimo non può esser dato alla comunità, che però può beneficiarne. Ciò
perché il càrisma, pur non derivando
dall’individuo, “entra” in
quest’ultimo, diventa munus; e quindi
l’eroe deve munificamente
“scambiarlo” (in quanto donum-munus e
solo nella parte munus) con l’altro da sé, così
formando un cum-munus, una communitas!
L’eroe ha dunque due volti: è divino (donum) ed umano (munus); di qui anche i pericoli
di tal duplice ma non dualistica
esistenza. Nietzsche (come Carlyle per altro verso) non comprendono questa
duplicità polare (non dualistica) dell’eroe. Trattasi d’un
errore gravissimo, che falsa radicalmente le prospettive.
Evola invece ammette la parte divina, dando
però molta più importanza a quella umana ed individuale. Il che a sua volta
falsa irrimediabilmente le prospettive. Il fatto è che Evola non ha mai
abbandonato il concetto di soggetto e di “Io” (“l’individualismo assoluto”).
Ora, qual è il senso del fare appello alle tradizioni spirituali dell’umanità
quando non se ne comprende il punto essenziale?
Quest’ultimo è il trascendere l’Io: è
un leitmotiv particolarmente
martellante di tutte le tradizioni
spirituali, orchestrato ed arrangiato in modi, modalità, tonalità sempre
differenti. Nel non aver compreso questo punto è il tragico fallimento di Evola
e la base, la radice dei suoi errori politici, grazie ai quali ha di fatto
gettato discredito sulle tradizioni spirituali dell’umanità, e questo è molto grave. Che poi questo
trascendimento dell’Io implichi un allargamento ed un potenziamento dell’Io è
verissimo, ma è pure possibile un potenziamento senza trascendimento: la via
del Male, che nasce dal non superare l’Io. Tutte le storie di eroi sono unanimi nel vedere in questo punto il
pericolo per l’eroe di perdersi, di naufragare sullo scoglio principale,
laddove la parte umana e quella divina, invece di coesistere, si combattono, e
la parte umana tende a prendere il sopravvento; tuttavia in compresenza della parte divina, che dunque non
sparisce. Si ha quindi una reazione autodistruttiva[23].
Evola e Jünger, poi, assieme hanno avuto il
demerito di predicare l’eroe; ma l’eroe non
può essere imitato. Hanno così provocato una scimmiottatura presuntuosa. Certo,
“è sempre tempo di eroi”, ma gli eroi, nel senso vero e sobrio di qui
sopra, perché nel senso di uomini coraggiosi si rimane nell’umano (nobile ma
umano), gli eroi son sempre pochissimi.
Nel culto dell’eroe di venera la possibile
divinizzazione dell’uomo “in sé”, non il fatto che “tutti” possano esser
divinizzati (come individui singoli). Stupisce in chi, come Evola, sin troppo
ha parlato di élite, e poi se ne vien
fuori con simili sciocchezze, il tutto approdando nel dare qualche “brivido”
pseudo-eroico a qualche probo borghese[24].
L’elefante ha partorito il topolino, il che potrebbe dirsi di tutta l’opera di
Evola; Jünger è diverso invece, non scade così facilmente nel culto della forza
e della virilità come fa Evola. Il fatto è che Evola in questo echeggia
Nietzsche. Questo è il punto. Ed allora entriamo in vexatam quaæstionem.
E’ uscito di recente la Guida a Nietzsche (Laterza) di M. Ferraris.
A mio avviso, Ferraris è in grosso errore quando parla di “politicamente
scorretto” a proposito di Nietzsche. Trattasi di oscurantismo dividere gli
autori in “buoni” e “cattivi”, senza contare che poi nessuna opera creative
sarebbe mai possibile perché gli autori “buoni” son quelli che corrispondono ai
loci communes dell’epoca loro,
giustificandone la mentalità dominante. Dico questo precisando che assai spesso
condivido le osservazioni di Ferraris[25].
Quando Ferraris afferma che Nietzsche fu un minore ha ragione. Ma dimentica di
aggiungere che fu uno di quei minori “maggiori”, per così dire, quei minori che
segnano un’epoca. Dove Ferraris ha ragione, è quando critica l’interpretazione
che Heidegger dà di Nietzsche, interpretazione che privilegia la creazione
artistica come creazione di un mondo “storico” contrapposto ad un mondo
“oggettivo”. Ora, sebbene Nietzsche senz’altro grandemente sottolinei
l’importanza dell’individualità creatrice, nondimeno mai nega l’esistenza di un mondo oggettivo in quanto tale. Questo
mondo perde il valore centrale, che sia Dio o l’umanità per Nietzsche è lo
stesso (ma è noto che Dio lo rispetta, mentre l’umanitarismo Nietzsche
l’aborrisce), ma non la sua realtà di
enti. La soggettività creatrice e
vitalmente affermativa vien esaltata proprio
perché non c’è un senso od una valore “ultimo”, in un quadro di enti reali ed oggettivi. Questi ultimi
sono in un certo senso “morti”; proprio perciò la vita può e dev’essere
assolutamente affermativa.
Sostanzialmente Ferraris critica la visione
di Nietzsche di Deleuze e Heidegger. A suo dire (cfr. intervista su “Il
Manifesto” del 15/06/99) si schiera a favore della visione che Cacciari ha di
Nietzsche, dove “si sottolinea che la spietatezza dell’analisi [di Nietzsche] è
un buon antidoto al sentimentalismo politico” (ibid.). E poi Ferraris,
recuperando Lukàcs, afferma che “Nietzsche ha davvero predicato contro la
solidarietà tra gli uomini” (ibid.). E’ vero, ma in caso contrario dove sarebbe
la critica al sentimentalismo politico? E’ questo
Nietzsche che Evola echeggia e che tenta di mescolare (male) alle tradizioni
spirituali, generando così delle gravi confusioni e dei malintesi evitabili.
Anche le tradizioni spirituali son elitarie, ma senza l’esaltazione della forza
e della vita che c’è in Nietzsche, perché per quelle tradizioni non solo ci
sono altri piani oltre a quello materiale e a quello della vita (e questo è già
uno spartiacque decisivo), ma per esse il senso “ultimo” c’è eccome!
Nietzsche critica duramente il democratismo,
l’umanitarismo, il liberalismo, l’eguaglianza tra i sessi, la solidarietà fra
gli uomini: per lui non c’è diritto senza forza (e in questo ha ragione).
Nietzsche ha oscillato nelle sue posizioni sulla scienza, sull’illuminismo,
persino sul Cristianesimo (si pensi a come vien trattato Cristo ne L’Anticristo): davvero nella sua opera
si posson trovare idee contrastanti. Era davvero un uomo troppo sensibile: si
veda il suo rapporto con Schopenhauer e Wagner[26]. Ma
c’è una cosa che sempre ha
attraversato l’opera di Nietzsche: la critica dell’umanitarismo, del
sentimentalismo politico in tutte le
sue forme[27]. Ed è proprio questo la causa del successo di
Nietzsche, il suo rispondere ad un bisogno reale. Dopo si potrà tornare a
ragionare, né personalmente condivido il culto della forza proprio di
Nietzsche, quanto al senso “ultimo”, esso c’è; ma son d’accordo con Cacciari:
Nietzsche è un rimedio necessario, seppur in dosi controllate[28]. Il
fatto è che Nietzsche riempie una domanda reale,
il fatto è che mostra che il sentimentalismo politico è basato sul fumo. Si può
scegliere di seguire questo sentimentalismo politico per conformismo o
convinzione: ma questo non può essere una costrizione. La concezione che Cacciari ha di Nietzsche è molto chiara: “La
concezione nietzschiana appare di segno opposto. Non vi è liberazione dal Politico. Questa liberazione può avvenire soltanto
sulla base di un radicale pessimismo (Schopenhauer) o di un pre-supposto
religioso (Kierkegaard), di una fede.
[…] La grande Politica è anzitutto una decisione
di rinunzia. Decisione è
rinunzia. Decidere è dividersi dalla
possibilità di rappresentare il tutto” (M. Cacciari:
Dialettica e critica del Politico. Saggio
su Hegel, Feltrinelli 1978, p.71). Che
da qui principi tutto l’Impolitico è a questo punto dimostrato. Che
l’Impolitico poi abbia letto in modi molto
diversi questa rinuncia, è un altro discorso; ma che da qui, da questo dividersi
abbia il suo principio, non può esserci dubbio. La via d’uscita è solo la fede,
come la Weil, oppure il radicale pessimismo d’un Canetti o d’un Broch. Il
pensiero occidentale moderno è al termine,
ed il suo finire inizia con Nietzsche: cento Ferraris o mille Lukàcs o
diecimila Luhmann o centomila neoilluministi non potranno cambiare ciò. Vi è
una questione essenziale,
ineludibile, decisiva.
Ancora: “Chi
è questa grande Politica? Il ‘profetismo’ nietzschiano maschera l’impossibilità
di parlarne. Nessuno, comunque, degli attuali soggetti. […] La grande Politica […]
rinunzia […] al soggetto” (ivi, p.72);
da questo punto di vista, e da questo
soltanto, Nietzsche si avvicina alla Weil. Qui vi è un punto realmente decisivo, sul e col quale non si può
giocare, né si lascia ridurre a qualcos’altro: è il soggetto. Il mantenere
questo concetto è il punto che fa da spartiacque. Così, la critica di
Schopenhauer e Kierkegaard dello stato-soggetto hegeliano “si conclude nell’Impolitico, nell’utopia del soggetto
come singolo ‘libero’ dal Politico. Questa ‘figura’ è ancora dialettica, […]
hegeliana: essa denuncia la totalità del Politico come falsa, ma non trasforma il linguaggio effettuale di questo Politico. L’impolitico
nietzschiano è invece critica del
Politico. Che nessun soggetto e nessuna Verità si esprimano nello stato non
comporta l’utopia del Singolo – ma il
problema della grande Politica” (ivi, p.74). Sono i due volti dell’Impolitico. Quanto al problema della grande
Politica, è il problema centrale, e dal ’78 ad oggi non ha fatto che acuirsi,
perché è l’altra faccia
dell’Impolitico come categoria. Ed a questo problema decisivo non ci sono mille
risposte. Si può rimanere dove si è, ed è quel che accade da vent’anni in
Occidente e nel mondo dall’ascesa di Reagan; ma le cose van sempre peggio, e
soprattutto non si può rimanere in
situazione di blocco per sempre. Si può cadere nel radicale pessimismo di un
Canetti o di un Broch; si può tentare una conciliazione di questo dividersi
dalla possibilità del Politico di rappresentare tutto. Questa conciliazione si
può tentare con il democratismo stesso, ed ecco il senso dell’opera della
Arendt, oppure tentare di legare questo dividersi con il neopaganesimo e la
gloria di Roma (Evola). Ma ciò che si tenta di conciliare rimane separato, le
cose s’incollano ma non si legano veramente. Tutto è sterile, morto. Il
pessimismo passivo (Canetti) o aggressivo e rivoluzionario (Battaille) comunque
si risolve in un chiudersi estremamente critico, sterile anch’esso. In ambedue i casi, non si trasforma il
linguaggio effettuale di questa Politica, che, seppur degenerando ogni giorno che passa in qualcosa d’infimo (non
si è mai tanto parlato di politica da quando essa non conta più nulla), è ancilla œconomiæ. In un insieme chiuso
non c’è soluzione al suo stesso livello. Si
deve andare oltre, o si è trascinati
giù nel mare come da un masso.
L’errore di Nietzsche è proprio il culto
della forza, dell’individualità creatrice, dell’Io, culto passato con riserva
in Evola, il quale tenta d’unirlo malamente con le tradizioni spirituali. Qui
ha visto molto più giusto S. Weil.
Quest’ultima parte dal “rifiuto del
volontarismo” (Esposito, Categorie…, cit., p.203). Tanto
Nietzsche è aforistico e vitalistico, tanto la Weil è astratta e concettuale.
Per lei “tra libertà e necessità s’instaura una relazione che non è di semplice
opposizione. […] per lei l’uomo non ha nessuna possibilità d’infrangere la
gabbia della necessità che, guardata dal lato del sovrannaturale, s’identifica
con l’obbedienza a Dio. Quello che
l’uomo può scegliere è semplicemente se dare il proprio consenso […] a tale
obbedienza necessaria. Da questo punto di vista […] esiste obbedienza
desiderata e obbedienza indesiderata” (ivi, p.206). Questa distinzione permette
alla Weil d’avvicinarsi al pensiero orientale, perché l’obbedienza “se
indesiderata, resta quella necessità meccanica che domina materialmente il
mondo; se, invece, desiderata, pur
restando oggettivamente la stessa, vien colta come l’insieme delle leggi
relative alla sfera del sovrannaturale” (ibid.).
E’ chiaro che, a questo punto, il ruolo
dell’Io cambia in parallelo al concetto di “decreazione” della Weil, concetto
dalle radici kabbalistiche (che risente altresì dell’influenza di Meister
Eckhardt e A. Silesius). La decreazione è “una creazione autoannientante, un
autoannientamento creativo […]; meglio: un’attività che non si risolve ‘in
atto’, che resta […] ‘in potenza’. Un’attività
passiva” (ivi, p.209). Dal punto di vista dell’Io, è la volontà il punto di
partenza: ben lungi dall’affermarsi come volontà di potenza, essa è un seguire una vocazione, una chiamata dall’Alto. E, per tornare allo heros, qui è dove si gioca la partita, se l’eroe seguirà la chiamata dall’Alto
oppure la sua volontà, cioè il suo sforzo, il suo “io” cioè. Qui è dove
Nietzsche si è bloccato ed Evola non ha compreso a fondo. Quanto a S. Weil, il
suo riferirsi alle tradizioni orientali è chiaro ed esplicito: “Questa specie
di attività passiva, superiore a tutte le altre, è descritta in modo perfetto
nella Bhâgavad-Gîta e in Lao-tse” (S.
Weil: Attente de Dieu, in ivi, p.210). Basandosi su tale punto, la Weil
va contro tutto il pensiero dell’Occidente moderno: “Il concetto di morale
laica è un’assurdità appunto perché la volontà è impotente a produrre salvezza”
(in ibid.). Vale a dire: se si dà valore
alla Bhâgavad-Gîta e a Lao-tse, cioè a tutto quello che questi rappresentano,
non ci può essere il pensiero che la morale laica rappresenta: la modernità.
E’ una conseguenza radicale che la Weil non
tira, ma che è implicita, non vista,
nel suo pensiero (da questo punto di vista, non è che siamo troppo lontani da
Guénon, con la grande differenza che
la Weil termina laddove Guénon inizia). La Weil tenta piuttosto una conciliazione, a mio avviso non
riuscita, con una modernità impolitica:
ecco il senso della sue opera. Il fatto è che la Weil vede comunque l’azione
come fondamentale, per questo suo pensiero sbocca nell’agire; e questo è ancora
coerente. Ma la conseguenza radicalmente antimoderna, implicita in Weil, è molto più esplicita in Battaille, dove però
manca il portarsi ad Oriente-Origine. Nondimeno, la Weil è più antimoderna di
Battaille pur essendolo in modo meno esplicito, perché la Weil non è meramente negativa. Battaille
parte e rimane nella negazione (in tal senso è l’autore più impolitico); S.
Weil nel suo sguardo ad Oriente intravede una soluzione. “Ma se la decisione è
necessaria, se l’azione è inevitabile, come sottrarla alla ‘macchina
desiderante’ che naturalmente la funzionalizza all’accrescimento dell’io. In
altre parole: come distinguere il punto a partire dal quale l’azione-decisione
si fa necessaria, l’attività passività, l’atto potenza?
La risposta più chiara a questa domanda – la domanda della filosofia politica
weiliana è contenuta nella parabola d’Arjuna tratta dalla Bhâgavad-Gîta. ‘Sappi – dice Krsna [Krishna] ad Arjuna – che, pur
essendo loro autore (kartâram), sono
non-agente (akartâram), immutabile […].
Gli atti non mi pertengono; perché non bramo i loro frutti (phala) [Bh.-Gîta, IV, 13-14]. Questa è la risposta della Weil: basata sulla
distinzione tra ‘rinuncia’ e ‘abbandono’. Si tratta di una distinzione ben
presente nella Gîta: ‘Astenersi dagli
atti motivati dal desiderio, ecco ciò che i saggi ispirati intendono per
rinuncia (samnyâsa); abbandonare il
frutto di tutti gli atti è ciò che i chiaroveggenti chiamano abbandono (tyâga)’ [Bh.-Gîta, XVIII, 2]. Ora, come nella Gîta, l’intenzione di Simone è quella di sostituire samnyâsa con tyâga, l’abbandono alla rinuncia. E’ il punto decisivo anche per
comprendere il senso dell’impolitico weiliano” (ivi, p.215). Qui è la
differenza con Battaille, dove quest’ultimo è per la fine dell’Io attraverso la
sua estenuazione, la sua rottura, mentre Simone lo è attraverso
il suo abbandono. E’ la soluzione di tutte le tradizioni spirituali
dell’umanità, ed è la soluzione che permette alla Weil di accettare che Dio qui nel mondo non voglia regnare, e
tuttavia restare nel mondo, nel mondo
ma non del mondo, la soluzione che
consente a Simone di accettare la decreazione senza cadere nel dualismo. Sì, questo mondo è sempre questo mondo,
Dio si è occultato ad esso, e questo
mondo va per la sua via verso l’inevitabile naufragio. Eppure dobbiamo agire: ciò è necessario.
E allora? L’abbandono dei frutti degli atti, perché siano fiori di campo:
“Guardate i gigli, come crescono: non filano, non tessono; eppure io vi dico
che neppure Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro” (Luca, 12,27). Il giglio non può fare a
meno di crescere o di essere un giglio, anche se il campo va in fiamme. Sii
dunque giglio di campo, se lo sei; ché, se sei sterpo, sarai arso nel rogo
finale. Il giglio non è “gratuito”,
ma necessario. Così, l’eroe, nel
senso antico e vero, non può fare a meno di essere tale: è necessario; l’unica sua scelta è abbandonare o non abbandonare
seguendo i fantasmi dell’Io, nel qual caso si danna come Macbeth. Ma questa
scelta manca necessariamente nell’uomo comune, dove in lui predomina il
condizionamento esterno nell’agire, che pure rimane necessario, ma cieco. Nell’uomo comune è il necessario
della società (o dell’umanità) ad agire in
lui. Non c’è una chiamata divina in
lui, come nell’eroe, con la responsabilità e i pericoli che tale chiamata
precisa e particolare implica necessariamente. Con chiarezza dico che
condivido la soluzione che la Weil mutua dalle tradizioni spirituali
dell’umanità: sì, non c’è altro che l’abbandono per un agire forte, se si è vocati; ma l’abbandono (tyâga)
è assolutamente necessario se si è electi.
Beninteso: “Abbandonare i frutti dei propri
atti non vuol dire in nessun modo rinunciare all’azione. Questa è la croce, ma
insieme la salvezza, inscritta nel destino di Arjuna: ‘Tu devi agire, ma non
gioire dei frutti delle tue azioni. Non assumere mai per motivo i frutti delle
tue azioni; ma non avere neanche attaccamento per il non-agire’ [Bh.-Gîta, II, 47][29]” (ivi,
p.215). L’abbandono vero, dunque, non implica lo stare senz’agire: “Che Arjuna
non debba godere dei frutti della propria azione non toglie che debba comunque
agire. E agire nel modo più efficace
possibile. Non c’è, nella Weil, nessuna tendenza ad un estetismo dell’azione –
agire per agire, quasi secondo la logica, da lei sempre rifiutata con forza, dell’atto
gratuito – o anche ad un dovere formale, vuoto di contenuti, alla maniera
kantiana” (ivi, pp.215-216). Il primo è l’errore di Evola, che nasce dall’incomprensione proprio della Gîta, nata dal fatto che Evola mantiene
l’idea dell’Io e non comprende veramente l’abbandono, che confonde col mero
dovere. Rimane allora l’azione “gratuita” e dissennata di tanti “evolomani”,
una mera estetica. Anche in Giappone, le
cui arti marziali hanno un retroterra simile, si è avuta una degenerazione
in mera estetica (dimenticando sovente gli aspetti interiori del bujutsu, fra i quali lo haragei, quest’ultimo a sua volta
degenerando spesso in mera forma). Il secondo errore è quello della modernità:
non c’è più un senso “ultimo”, che vien dichiarato non esistere “per decreto
tacito” (guai a colui che lo cerca: è un paria nel mondo moderno). Resta il
formalismo vuoto, quello che Nietzsche e poi Battaille odiavano con tutto se
stessi; formalismo, poi, che a nulla serve quando il mondo apre le sue fauci,
quando la tempesta infuria e si affonda.
Siamo al punto: la Weil guarda ad Oriente,
rompe con il formalismo moderno senza cadere nell’estetismo dell’azione, ma non ne trae le debite conseguenze. Guarda oltre, ma non rompe il quadro di
riferimento (ed è qui la profonda differenza con Guénon, che pure guarda ad Oriente). Si ferma ad un
certo punto: è il limite della Weil.
Eppure è l’unica che ha condotto l’impolitico oltre non solo il moderno, che tutto l’impolitico è critica del moderno, ma pure oltre la critica stessa del moderno
che l’impolitico è.
Continuiamo: “Agire si deve e agire efficacemente. […] Per questo Arjuna
deve combattere. Passivamente (senza frutti personali), ma deve combattere. Quella battaglia è stampata nel suo destino. Fa
parte d’una necessità che la sua decisione deve cogliere. Con una passione che
non ceda ad alcuna pietà: ‘Ecco dov’è il torto di Arjuna. L’azione di
combattere era conforme alla luce che aveva in sé, perché vi si era deciso
risolutamente. Vi si doveva attenere finché non avesse ricevuto maggior luce,
altrimenti poteva solo cadere più in basso, non ascendere più in alto. Ora
questa pietà che entra in lui mediante la vista e gli toglie le forze – non è
così che viene la luce’ [S. Weil, Cahiers II]” (ivi, p.216).
E’ vero, non è così che viene la luce:
Arjuna, però, poi di seguito la scorgerà. E’ un dialogo intimo fra l’uomo e il suo dio; gli altri vi sono ammessi, ma non
possono intervenire.
L’uomo chiede al dio il perché del male.
E il dio gli risponde rivelandogli Sé.
Alla domanda relativa al Tutto, la risposta
può solo essere: Tutto.
L’uomo chiede: perché il male?
Il dio risponde: Tu.
L’uomo disperato chiede ancora: e allora?
E il dio: Io.
3.
Terra e Mar
Di certo veniamo al termine di una lunga
giornata. E, se tempo è venuto per tirar le somme, guardando indietro quante
possibilità sono state giocate e quanto poche ne rimangono da giocarsi! Due
sole invero: o seguitare sulla strada in discesa della “globalizzazione” (e di
tutto ciò che le è sotteso), ovvero, accettando il naufragio, cioè
l’impossibilità di eliminare o vincere frontalmente la globalizzazione, aprirsi
all’adveniens. Ed aprirsi all’Oriens/Origo. L’unica salvezza per l’Occidente è questa: “si ritira donandosi e si
dona ritirandosi” (Esposito, Communitas…, cit., p.119). E ciò implica
l’ascolto dell’Oriente, ma senza
l’illusione che, ascoltandolo, ecco immediatamente finito il naufragio ed
eccoci subito sulla terraferma (quella “terra nuova” di cui parla l’Apocalisse,
che non è di certo “il nuovo continente”, cioè l’America, che anzi è la potenza
che come nessuna ha contribuito al naufragio). O tremenda illusione di colui
che scambia simbolo e simboleggiato!
“Davvero quando sopra gli uomini / c’è in
cielo una contesa e possenti / vanno le lune, allora parla il mare”
(Hölderlin).
Ed è così davvero: nel cielo vi è una
contesa, e gli astri possenti segnano il passo. Allora, all’umanità confusa non
resta che ascoltare il lento mormorio del mare, talvolta rombante furente
tempesta. “I versi di Hölderlin costituiscono l’esatto rovescio di quell’[…]
epopea del mare da Hegel filosoficamente ‘cantata’ nel segno dell’infinita
espansione dell’Europa” (ivi, pp.119-120). Quell’espansione è definitivamente finita. L’illusione
dell’indefinita espansione nasceva tra il moto sul mare ed il moto del
mare, fra il proprio canto, finito, e
quello del mare, che non ha fine.
Si è trattato, comunque, di un moto definitivo, a livello umano e storico
irreversibile; per questo non c’è “ritorno” come inversione della rotta della
nave, ma solo approdo in séguito al naufragio, cioè approdo che è naufragio. Occorre accettare che
la nave non può domare la tempesta che viene dal mare, quando viene. Ma, come
abbiamo visto al termine della parte n°2, ciò non significa che non si possa agire,
anzi: si deve agire, perché ciò è necessario. E’ solo che non si può salvare la nave; il che a sua volta non vuol dire che non si possa
raggiungere l’approdo, anzi: si deve
raggiungere l’approdo, tramite il naufragio.
Detto
altrimenti: è proprio l’isola dell’approdo che rompe la nave che la tempesta
sospinge.
Che il mare parli non vuol dire che non ci sia nessun approdo, nessuna isola sulla
quale approdare, ma che, nella fase
attuale, si è ancora nel mare.
Bisogna saper ascoltare il mare, perché parla della terraferma in avvicinamento
così come della procella in arrivo. Il mare come mero agitarsi per raggiungere
e conquistare le parti extraeuropee del globo non parla più[30].
Non c’è infinita espansione, ma: ogni espansione è preludio ad una contrazione.
Quest’ultima è in moto da tempo, prima in sordina, poi sempre più forte, ma non
ha per niente ancora raggiunto il suo punto di ebollizione. Che il naufragio
sia inevitabile vuol dire che le forze poste in moto non possono più essere
domate nel senso di eliminate: come l’apprendista stregone, le forze poste in
atto hanno una loro autonomia; e, quand’anche il maestro stregone potesse sedar
la tempesta come Cristo nei Vangeli, ciò non
dev’essere fatto, perché solo fallendo
l’apprendista stregone può imparare la sua lezione. Il progetto
illuministico si è chiuso nell’umano, ma questa chiusura non si elimina di
certo “togliendo le castagne dal fuoco” a tale progetto in crisi. Quand’anche
fosse possibile, non avrebbe senso. Il problema è un altro: è agire nonostante
tale crisi esiziale, come abbiamo visto con la Weil, perché agire è comunque necessario. Il primo passo è però non
agire, ma ascoltare.
Ascoltare il mare, come periculum, perché il mare ascolta l’Altro. E l’Altro è
l’Oriente-Origine. Senza poter tornare
all’origine, senza poter tornare all’Oriente, ascoltare l’Oriente per porlo in
atto nel viaggio pericoloso e naufrago perché possa salvare i naufraghi
potenziali, ma non la nave stessa. Questo perché la nave-Occidente si
definisce in opposizione alla terra-Oriente: qui Hegel vede bene, ma sbaglia senso, confonde l’allontanamento
con l’avvicinamento, il crescere col deperire. Prima c’è stato il cambiamento di rotta ( di senso) della storia, poi il fenomeno allontanamento è stato visto
come avvicinamento. C’è un mare che si oppone alla terra, c’è un mare che
circonda la terra senza opporcisi. Quest’ultima possibilità fa sì che si apra uno spiraglio alla comprensione.
Beninteso: terra e mare rimangono diversi, ma complementari e non
opposti. Allora, l’Oriente (la terra) diventa necessario (nel senso della Weil)
al viaggio del bateau ivre.
La questione è centrale, perché investe in
pieno la crisi del moderno “in sé”. Senz’altro con Hobbes inizia il moderno; a
differenza di Grozio per Hobbes non c’è una legge di natura “oggettiva”, ma la
legge nasce dal “contratto” che gli uomini fanno per porre termina al bellum omnium contra omnes. Hobbes
compie quel che c’era implicito in Machiavelli. Con quest’ultimo il Politico si
stacca dalla religione e diventa indipendente, con Hobbes il Politico è autonomo e fondante. Con l’illuminismo
il Politico non è più autonomo e fondante, cioè sciolto, assoluto, ma deve
nuovamente trovare in altro da sé la sua origine. La trova nella morale, nel
secolo scorso nell’economia, nel nostro nella tecnica. Questa sudditanza di
fatto annulla sempre più il Politico: è la spoliticizzazione di Schmitt. La
spoliticizzazione implica come reazione la critica del Politico “in sé”:
l’impolitico. L’impolitico non può essere solo negativo e critico. Ma, non trovando in sé le chiavi per
rendersi effettivo, guarda quindi altrove: alla Grecia, in Heidegger,
all’Oriente ed alla mistica in Weil. Mentre in Heidegger la spinta è un
ritornare indietro, anche concreto, per cui la filosofia di Heidegger è stata
usata dal nazismo (in parte forzando, in parte no), la Weil si ferma sul ciglio. Va verso Oriente in
certa misura, ma non cerca taluni suoi raggi per illuminare le tenebre
occidentali, nonostante i riferimenti alla Gîta
ed a Lao-tse [Laozi].
Non
cerca di costruire uno specchio per prolungare taluni di quei raggi “d’orïental
zaffiro” (Dante), proiettandoli sulla nave in preda “al folle volo, sempre
acquistando sul lato mancino” (Dante,
Inferno, XXVI, 125-126), mentre la
tempesta, il “turbo” (ivi, p.136), rabbuia di livida luce la nave. Su
quest’ultima, il sole da tempo non si vede, la nave viene rischiarata solo
dalle sue fredde luci elettriche.
Nella Weil, ripetiamolo, c’è la tendenza, ma
il suo punto di partenza spinoziano le impedisce un “avvicinamento” (Jünger)
più deciso e forte[31].
Il nostro discorso ci ha condotti ad un
avvicinamento all’Oriente partendo dallo studio dell’impolitico effettuato da
un punto di vista molto particolare.
Nell’àmbito di questo discorso, prendiamo il Giappone come specchio, dove il raggio di luce pallida e lunare dell’illuminismo
viene riflesso indietro modificato
dalla tenue luce del Sole nascente. E’ una luce non forte, ma di natura diversa
da quella pallida e spettrale
dell’illuminismo, perché luce solare.
Questo raggio di ritorno verrà poi concentrato in un proiettore allo scopo di
rischiarare il cupo chiarore che predomina oggi sulla nave del mondo, allo
scopo di superare la linea d’ombra.
Per capire perché il Giappone, dobbiamo far
intervenire la differenza universalismo/particolarismo, non come categorie
“assolute”, ma come pietre miliari che punteggiano e segnano il cammino.
“Definiamo come universalistiche quelle culture in cui i sistemi di valori e
princìpi son considerati estendibili a tutti gli uomini, al di là delle
barriere nazionali e comportamentali, e le differenze etniche, ecc. Un esempio
classico di cultura universalistica è quella dell’Occidente, sia nella sua
matrice cristiana che nella moderna variante dell’illuminismo. Come la
Cristianità […] e l’Islâm, religioni universali come il Buddismo, che ha
fortemente influenzato l’Asia Orientale, e il Confucianesimo, che è specifico
della civiltà sinica. Una classica cultura particolaristica è quella del popolo
ebraico, caratterizzato dalla relazione privilegiata tra un popolo ‘scelto’ e
il suo unico Dio. La cultura giapponese è anch’essa particolaristica, anche se
parte del mondo sinico e profondamente influenzato dal Confucianesimo e dal
Buddismo” (F. Mazzei: Particolarismo giapponese e crisi della
modernità occidentale (in ingl.), 1999, p.13)[32].
Il Giappone si differenzia per due aspetti: da un lato è parte della
civiltà sinica, fa cioè riferimento ad un universalismo diverso da quello
dell’Occidente, sia moderno che premoderno; ma ciò si aggiunge ad un sostrato
particolaristico. Vale a dire: il raggio attraversa la lente sinica, e il suo
angolo d’incidenza cambia, ma l’effetto riflettente si ha grazie all’aspetto
particolaristico del Giappone[33]. E’
in questo sostrato il perché la Cina non ha risposto alla modernità, mentre il
Giappone (fermo restando la sua maggior vitalità senza la quale niente sarebbe
stato possibile, mentre il resto dell’Oriente si era cristallizzato, cfr. nota
n°30) ha insieme ceduto (aspetto universalistico) e risposto alla sfida dell’Occidente
moderno (aspetto particolaristico)[34].
Quest’ultimo aspetto resiste ma non viene colpito, l’altro resiste ma è
colpito. Ciò significa che la modernità non era in grado di discernere
l’aspetto particolaristico del Giappone, mentre vedeva e colpiva
l’universalismo sinico presente in Giappone[35].
L’universalismo sinico sopravvive mascherato in Cina, mentre in Giappone è
sopravvissuto unendosi col
particolarismo che la modernità non riesce a colpire.
Ecco dunque che il Giappone può fungere da
specchio a questo punto del nostro studio[36].
Quest’effetto c’interessa anche di più perché la civiltà occidentale moderna è
in realtà una civiltà particolaristica resa universalistica[37].
Detto altrimenti, l’occidente nasce da una liaison
dangereuse molto particolare, resa universalistica.
Sono molte le specificità dell’universalismo
dell’Asia Orientale, della civiltà sinica[38]. Ma
qui ci si vuol soffermare sul quadro di riferimento sottostante, lo “scheletro
metafisico sottostante”, quella diversa metafisica inespressa che sta alla base delle differenti manifestazioni della
civiltà sinica senza determinarla, ma
condizionandole. Questa scelta si giustifica così: questo è un punto decisivo, qui si attua la decisione; questo è un punto effettivo, cioè da cui principiano gli “effetti”.
Un’altra cosa occorre sottolineare: la
metafisica dualistica dell’Occidente degenera in tecno-scienza moderna. La
metafisica polare, del “processo”,
dell’Asia Orientale discende in arte. Al centro della modernità vi è la
scienza e la tecnica (unite in tutt’uno nella scienza-tecnica o tecno-scienza
che dir si voglia); al centro della civiltà sinica, dopo il rivolgimento
attorno al suo culmine (dinastia Tang per dare un’indicazione) vi è l’arte, in
particolare la pittura in Cina e la pittura e
la scultura in Giappone (e Corea)[39]. La
scienza moderna è degenerazione perché è frattura, mentre l’arte sinica è
riduzione, specificazione della metafisica estremorientale, ma non frattura. Questa differenza è
fondamentale. Inoltre, la bellezza è armonia delle parti costitutive: devi cioè
percepire l’insieme armonizzando le
singole parti. La visione scientifico-tecnica è analitica e separativa: isola le parti dell’insieme. Essa è
potuta nascere mercé il dualismo, ma poi se ne è allontanata come si allontana
da qualsiasi visione che non sia il continuo accrescimento dei suoi mezzi di
azione concreta e particolare. L’arte tradizionale dell’Asia Orientale si è
mantenuta legata alla metafisica polare proprio perché non può fare a meno
d’osservare l’insieme, l’armonia delle parti costitutive. In tale armonia c’è
il leitmotiv dell’Asia Orientale.
Distinguiamo tre modalità del pensiero umano:
1) dualismo; 2) dualità; 3) polarità.
Dualismo è la scelta secca, che esclude il terzo (tertium non datur). Dualità è opposizione, ma permette la
conciliazione tra i due. Polarità è complementarismo fra i due termini, ognuno
dei quali si definisce con l’altro[40].
Polarità è la legge generale; la dualità è un
suo caso particolare. Dualità è la legge seconda; il dualismo è un suo caso
particolare. In Occidente si è ragionato esattamente
all’inverso, anche se, abbiamo visto, taluni pensatori han tentato di
staccarsi da tale punto di vista riduttivo (in particolare nel nostro studio si
è citato Guardini, che ha tentato di rimettere al centro la polarità). Il
dualismo è il difetto d’origine della ragione in sé, la quale non è in grado di
conciliare verità antinomiche salvo far ricorso a ciò che trascende la ragione
stessa (la fede, in senso cristiano) o ricorrere al paradosso. La dualità è
quella Creatore/Creato, dove quest’ultimo si oppone al Creatore, ma non è inconciliabile con Lui. Nel cosmo
mentale della polarità non c’è spazio
per la creazione; c’è piuttosto emanazione,
manifestazione, non creazione[41].
L’Occidente moderno nasce dalla liaison dangereuse fra concetto di creazione e dualismo della ragione, fra
retaggio giudeo-cristiano e retaggio greco-romano. Ci devono essere ambedue, perché è il loro legame ad aver generato la
modernità[42].
Ma vediamo questo processo storicamente.
“In questa luce, l’eccezione, se si può
veramente parlare di eccezioni nella multiforme storia del mondo, non dovrebbe
esser vista nell’‘anomalo’ sviluppo del Giappone e della civiltà sinica in
generale, ma piuttosto nell’Occidente. E’ nell’antico mondo mediterraneo che
uno straordinario evento ebbe luogo: la ‘rottura’ causata dalla combinazione
del monoteismo ebraico con l’universalismo romano” (Mazzei, cit., p.45), al quale occorre aggiungere l’influsso
greco, la dicotomia muqoV/logoV del tutto sconosciuta
in Oriente, anche nell’Oriente indù ed islamico. Questo è anzi il punto decisivo. Difatti, com’è che il mondo
islamico, pur condividendo con l’Occidente il concetto di creazione, quindi la
dualità, tuttavia non ha operato il taglio della scienza moderna? Perché il
retaggio ebraico non si mescola né con l’universalismo romano, le cui tracce
pure si possono trovare, ma soprattutto non
si mescola con il retaggio greco[43].
L’Occidente, allora, nasce dall’unione di tre
componenti. Ma una è la liaison dangereuse decisiva: quella fra la
dualità creazionista e la ragione antinomica e dualista: è questo legame ad
aver generato e prodotto il veleno.
E’ il legame decisivo. Tuttavia,
questa liaison è instabile, è un qualcosa che si scrive ma non si pronuncia, però ci
son condizioni nelle quali si pronuncia, ecco che un elemento, la scienza
moderna, doveva predominare attaccando quel concetto di creazione senza il
quale non sarebbe nata, ma che non può che modificare nel senso del dualismo[44].
“E’ stato osservato che la trascendenza
cristiana crea un distacco, distanziante la divinità […] dalla terra […]. In
questo modo, il mondo, privato di una sua autonoma sacertà, diventa ‘terreno’.
Questo distanziamento dalla sacertà della terra col passar del tempo, come
scrive Lavelle, ‘crebbe a tal punto che l’Occidente arrivò a perderne la
visione, dando nascita alla modernità’. Con la della salvazione tipica del
progetto illuministico, ogni residuo di sacralità diventa secolarizzato e
concentrato nella ragione e nei suoi valori” (Mazzei, cit., p.45). La ragione,
facoltà solo umana, come assoluto: una cosa assurda. E’ importantissimo notare
che quest’esito non è necessariamente
legato alla dualità insita nel concetto di creazione: è una possibilità, che
nell’Islâm non si è mai realizzata.
Ciò implica che l’esito della secolarizzazione nasce dalla liaison dangereuse fra i
tre elementi di cui s’è detto sopra, in cui, a causa dell’instabilità della liaison fra elementi contrastantisi, soprattutto creazione e
ragione dialettica ed agonistica greca, quest’ultima, col suo dualismo muqoV/logoV, è venuta a predominare. Considerare la ragione come
sacra è, naturalmente, pura allucinazione, perché la ragione non implica il
contatto col sovrumano; ma, poiché il sacro era dichiarato non esistere per
decreto, la cosa perde la sua blasfemia in
quella mentalità. Detto altrimenti: se non riconosceva la sacertà della
ragione, a cosa poteva mai appellarsi il progetto illuminista per legittimare la sua spinta verso il
predominio nell’Occidente e poi nel mondo intero? Non aveva scelta; l’alternativa sarebbe stata la delegittimazione.
Il progetto illuminista crolla però proprio
perché ha dovuto render sacra la ragione, che sacra non può essere. E’ un idolo infranto, uno spaventapasseri che ogni
giorno che passa mette sempre meno paura, salvo che si voglia averne paura, e che resiste perché non si vede alternativa.
Difatti, “oggi, […] col passaggio dal paradigma dell’unità a quello della
molteplicità, la sacralità della ragione è stata posta sotto attacco. Questo
passaggio, che non è per niente facile o inevitabile, è accompagnato da
pratiche culturali quali ‘de-ideologizzazione’, ‘frammentazione’,
‘regionalizzazione’, ‘carnivalizzazione’ ed ‘ibridazione’. Tutto ciò è
osservato con ansietà ma più ‘leggermente’, più ‘debolmente’, e senza quel
rimpianto che caratterizzava i ‘filosofi della crisi’ della prima metà del
secolo” (ivi, pp.45-46). Qualcosa è cambiato irreversibilmente: l’impolitico aveva ancora nostalgia del
Politico; questa nostalgia non c’è più oggi. Gli anni 65-85 hanno esaurito il progetto illuministico,
consumandolo dall’interno, ma pure indebolendone la critica. Il progetto
illuministico si è esaurito per consunzione,
per esaurimento di forze, non per rivoluzione d’idee. Questo è un
punto importantissimo, che non può essere dimenticato: se la
modernità non può esser negata come se non fosse mai esistita, pure non si può
dimenticare che il progetto illuminista è stato seguito ed è stato creduto. E’
semplicemente avvenuta la sua implosione.
E’ per
questo che il naufragio è inevitabile,
il tutto essendo una frammentazione, non la nascita d’un progetto
alternativo. Anche in Asia Orientale, per quanto sia interessante
l’effetto-specchio del Giappone, lo specchio non è capace di fornire un’immagine
diversa da quella che vi si specchia: si limita a resistere rimandandola
indietro. Il bello è che fa vedere a chi vi si specchia chi è[45].
In concreto, lo si è già detto, in Asia Orientale si hanno culture ibride.
Venendo al Giappone, esso s’inserisce nel
senso del sacro “diffuso” tipico dell’Asia Orientale, proprio non solo del
Buddismo e del Taoismo, ma pure del Confucianesimo, il che sovente non si nota sufficientemente[46]. Da
questo quadro, dal quale il Giappone non
può essere astratto, cos’è che vi accade?
“Un processo inverso di desacralizzazione può
essere osservato in Giappone: la ‘debole’ e ‘diffusa’ sacralità’ era così
vicina al mondo che si dissolveva in esso, dopo un breve ed eccezionale periodo
di massima concentrazione nell’istituzione del Tenno” (Mazzei, cit., p.46), istituzione che a sua volta si
desacralizzò per salvarsi. Quest’istituzione, il Tenno, è il segno del particolarismo nipponico,
perché a causa della sua presenza il concetto di “’lealtà’ al superiore […]
piuttosto che la ‘deviazione filiale’, che è la virtù cardinale per eccellenza
dell’etica confuciana cinese” (ivi, p.49) è divenuto il concetto centrale del
Giappone. Perciò, la “moralità in Giappone crea molto più ovvie tensioni e
grosse pressioni sull’individuo che […] in Cina, che è più libera e meno
gerarchica” (ibid.). Non è un caso,
allora, che il Tenno sia stato l’elemento
particolare attorno al quale il Giappone si è coagulato per resistere
attivamente all’Occidente mascherandosi da occidentali. Tutti i conti
tornano.
C’è un altro punto. Sono assolutamente d’accordo
con F. Mazzei sul parallelo esistente fra la religiosità nipponica e quella
romana precristiana[47],
ambedue vedendo il Divino (shen, shin) nella Natura. Da tale punto di vista, il parallelo è fra
Grecia e Cina, dove però la Cina non
ha mai assegnato alla ragione il posto che la Grecia le diede (non c’è
opposizione costitutiva muqoV/logoV), ed inoltre la
Cina ha avuto il suo istituto politico-religioso caratteristico del keming (“perdita del Mandato Celeste [tianming]”). Quest’ultimo implica la
possibilità di sostituire la dinastia ma non
la funzione del Figlio del Cielo (Tianzi)[48].
Il
raggio, di cui si parlava in questo studio a proposito dell’effetto specchio
del Giappone, è dunque tornato indietro, modificato. La modernità è stata
riflessa nello specchio, il che non può non aver conseguenze sul nostro
discorso relativo alla critica della modernità vista sotto l’angolazione
dell’impolitico.
Il progetto illuminista è fallito perché ha
avuto successo, ha cioè sviluppato la tecnica, forza storica determinante, che
ha uniformato la Terra. Però ha fallito perché lo scopo per il quale ha sviluppato la tecnica, cioè il progetto
salvifico della ragione, considerata come assoluto, non è stato raggiunto. Si
può sviluppare la tecnica, si può dominare il mondo per mezzo di essa, ma la
tecnica stessa, passato un certo grado di potenza, spinge alla frammentazione,
mentre la ragione dimostra la sua impotenza mostrandosi del tutto incapace a
controllare la tecnica scatenata ed a mantenerla entro quei limiti nei quali è
utile svilupparla: ogni cosa deve avere dei limiti, l’illimitato perde l’uomo.
Ma dietro la tecnica c’è precisamente la spinta all’illimitato, cioè a perdersi, annullarsi; si ripete la
storia dell’apprendista stregone. E’ così stata costruita la Nuova Torre di
Babele, con all’interno tanti linguaggi, ma dispersi. Non più l’artificio di confondere le lingue risolverà il problema
posto dalla costruzione che rifiuta il limite, ma il Silenzio, o il Fulmine di Dio[49].
E’ da un bel po’ che siamo in questa
temperie. L’impolitico è stato il grande momento critico dei tempi moderni, ma
pure la ricerca velata d’una via d’uscita, che però non si trova e si risolve
in uno scacco. Finito il secondo conflitto mondiale si ha una ripresa delle
illusioni razionalistiche, che poi cominciano a dissolversi con la fine anni
’60 – inizio ’70. Da allora, la tendenza
alla frammentazione è aumentata tanto più aumentava lo sviluppo tecnico. Il
volto oscuro del moderno è venuto fuori.
A questo scacco ci sono state due reazioni:
prima reazione, una non-risposta, vale a dire il neo-illuminismo; seconda reazione,
due risposte alla sfida in atto. 1)
La prima è il barocchismo, cioè accettare la fine delle illusioni moderne (le
“grandi narrazioni” (Lyotard)): ed è il cosiddetto post-moderno, che in realtà
è più giusto chiamare tardomoderno. 2) La seconda risposta è stata quella
di cercare una via d’uscita, atteggiamento
più o meno antimoderno, ma va precisato con chiarezza
che tale atteggiamento è precedente alla ricerca d’una via d’uscita; detto
altrimenti: l’antimodernismo non è ipso facto ricerca d’una via d’uscita
dalla crisi del progetto illuminista come risposta
alla sfida in atto.
Naturalmente, ci sono mille sfumature
all’interno dei tre gruppi e dei due atteggiamenti. Quel che conta notare
è che i primi due gruppi sono maggioritari. Essi accettano in un modo o in un
altro la modernità; il problema è che non riescono a proporre vie d’uscita o
visioni di sorta, tutto si appiattisce sul presente, con l’importante differenza che il secondo gruppo (barocchismo) è aperto, il primo (neoilluministi) è chiuso. Quanto al numericamente
ridottissimo terzo gruppo, cercando una via, potrebbe proporre una visione, ma
il suo problema è che non accetta la modernità, essendo più o meno velatamente
antimoderno; e tuttavia la modernità c’è
stata, è un fatto. Il tutto si risolve
allora nel chiudersi nel passato o nel futuro (o in una mistura d’ambedue). E’
necessario un terzo atteggiamento e quarto gruppo, che cerchi una via, senza
quindi appiattirsi sul presente, però accettando
l’esserci stato della modernità,
della fase moderna. Che la si giudichi negativamente è meno importante che se
ne accetti l’esistenza, comunque la si
giudichi, perché le conseguenze di
quell’epoca son qui, sono il nostro presente; ora, chiudersi a tale presente,
vuol dire tradirlo ed impedirsi così di dar forza proprio alla ricerca d’una
via d’uscita. Si cerca quindi una risposta alla sfida, ma una risposta che non può
essere trovata, perché non si collegano mai passato-futuro non-moderni e crisi della modernità.
Tutto ciò ha delle conseguenze, l’uscire dalla “cattività babilonese”
implica un pagamento, e pesante. Si smette di opporre il rifiuto all’esistenza
stessa della modernità, con lo scopo di rispondere alla sfida della crisi della
modernità stessa. Di conseguenza, non
c’è l’illusione di mutare la rotta. Tale illusione può coesistere solo con il rifiuto dell’esistenza della
modernità stessa. E’ importante però precisare che un tale atteggiamento può
perfettamente coesistere con l’antimodernismo: l’unica cosa che richiede è che tale antimodernismo non giunga fino
al rifiuto dell’esistenza della modernità: questo è il punto decisivo. In tal modo, però, le forze
non son disperse in un còmpito illimitato e perciò impossibile.
L’antimodernismo che nega l’esserci stato del moderno cade in questa contraddizione:
poiché il moderno è disperdersi nell’illimitato, una lotta contro di esso che
ne neghi l’esistenza dev’essere allo
stesso modo illimitata. E’ per questo che l’antimodernismo è stato sterile,
fatalista. Alla pulsione verso l’illimitato della modernità non ci si oppone frontalmente volendola
mutare, perché una lotta contro l’illimitato è illimitata essa stessa. Ma non c’è nemmeno schiacciamento sul
presente, quindi c’è possibilità di fare. Alla potenza dell’illimitato, l’acqua
(che unisce l’eterogeneo), non ci si oppone con l’acqua, salvo
averne una maggior quantità (ma ciò è
chiaramente impossibile); ci si oppone con la potenza che unisce l’omogeneo, il
fuoco (che pone limiti). L’acqua spegne il fuoco, ma se tra i due si pone
metallo, è possibile riscaldare l’acqua, cioè, simbolicamente, “vincere” l’elemento acqua per mezzo del fuoco.
L’interesse per l’Oriente può avere due
forme: si pone accanto al pensiero
occidentale, oppure si accompagna alla consapevolezza
che il pensiero occidentale, lasciato a se stesso, non può che appiattirsi sul
presente, naufragandoci. Tale consapevolezza, se non può evitare il naufragio, è però come un germe vitale. Il punto
decisivo è che il rifiuto
dell’esistenza della modernità (e della
sua irreversibile crisi) in cui siamo non consente a tale germe vitale di
venir fuori: così esso rimane chiuso e tutto è anche in questo caso sterile. Per rendere fecondo un tale
orientamento, ci vuole la necessaria,
oltre che inevitabile, accettazione dell’esistenza
della modernità, che non implica
necessariamente l’accettazione del valore “positivo” della modernità stessa,
cioè non implica necessariamente la
fine dell’atteggiamento antimoderno. Ciò che è necessario è duplice: 1)
l’accettazione dell’esistenza della
modernità e quindi della sua
irreversibile crisi; 2) non avere
nessuna illusione riguardo alla possibilità di evitare il naufragio della modernità in crisi allo scopo di
risolvere il suo problema, e quindi
sostituirsi ad essa. Se vi sarà sostituzione della modernità in crisi esiziale,
ciò avverrà per mezzo di un’ineliminabile discontinuità. E’ poi necessario
(sempre nel senso della Weil) mantenersi aperti all’adveniens, ed è senz’altro necessario
rimanere aperti su di un punto centrale: mentre la modernità pretende
che con mezzi solo umani si possa costruire il mondo umano, quest’apertura implica che con mezzi solo umani non si può costruire il mondo umano,
starei per dire “comunità” se fossi ben inteso. Per parafrasare Averroè: “O
uomini! Io non dico che questa scienza che voi chiamate umana sia falsa; dico
solo che da sola non è sufficiente vera e porta nella disgregazione”[50].
Lo spazio a ciò che trascende l’umano non
distrugge l’umano; in Oriente, non quello moderno, che è, l’abbiamo visto, un
ibrido, si è sempre avuto più consapevolezza di ciò. E tale consapevolezza
persiste lì più intensa, pure nelle attuali culture orientali moderne ibride[51].
Dando questo spazio si risolve il problema
posto da Weber[52].
In tal modo, torniamo, per altra e differente via, al termine del
punto 2 del presente studio: è la lotta contro l’Io, per trascenderlo, il punto
centrale d’ogni spiritualità, il punto che distingue le arti marziali orientali
dallo sport occidentale[53].
Ma la spiritualità, che cerca di andare oltre
l’Io, ed oltre la ragione, quindi, non può nascere dall’Io. E’ qui che
fenomeni come il cosiddetto “new age” cadono, ed è qui dove il sottosuolo (cfr.
nota n°27) non riesce mai a trovare un punto d’emersione che non sia
esplosione. La tradizione è una cosa reale, praticamente del tutto non compresa dalla modernità, per quanto “tarda” o “post”
la si voglia. Ogni “tradizione,
un’entità realissima, incompatibile con eclettiche assonanze, con la quale è
impossibile ‘divertirsi’, che è impossibile dis-vertere” (M. Cacciari: saggio introduttivo a W. Frænger: Le tentazioni di Sant’Antonio, Guanda 1981, p.26) va invece ascoltata. Né si può con l’Io cercare di
costruirsi una “propria” forma, pur non
essendo affatto impossibile riferirsi a fonti diverse, ma è un altro discorso. Questo fa sorgere la
questione di come l’Io e la
tradizione si uniscano. Ma è una questione che va oltre i limiti del presente
studio, perché può esser trattata là dove la tradizione, in una delle sue forme, non solo è conosciuta, ma pure accettata; solo allora ha senso. Non ha
senso, invece, chiedersi quale forma tradizionale sia “meglio” e quale “peggio”
(salvo che a titolo di affinità individuali) come ha fatto Evola, il tutto per
quest’autore riducendosi alla fin fine all’esaltazione della paganitas. Tutt’altro che fanatico della
Christianitas, pure non sono un
esaltatore della paganitas[54].
Occorre dunque saper ascoltare, ma occorre pure, per non dire soprattutto, saper decidere. Ed il punto decisivo è quello
dove convergono più raggi, dove più lacci s’intrecciano generando un nodo. E
questo punto è: se in Occidente ci si decida o non ad abbandonare una volta per
tutte la sua falsa credenza in una supposta “verità universale” (tale supposta
“verità universale” si compone di due
facce di una sola moneta: il predominio della tecno-economia e una certa visione
della democrazia come “tirannia della maggioranza” (Toqueville) che maschera
altre forze agenti che manipolano la forza delle masse). Tale verità supposta
universale per forza di cose deve presupporre una storia “totalizzante”. In
caso contrario, l’Occidente seguirà questo modello nella sempre crescente
frammentazione globale, di conseguenza ingovernabilità e tendenziale stato di
caos[55].
Solo il definitivo abbandono
dell’universalismo illuministico può dare all’Europa una vera chance. La modernità nasce dall’unione
instabile di tre componenti, come abbiamo visto precedentemente.
L’universalismo illuministico nasce dalla degenerazione dell’universalismo
cristiano, sul quale si sono innestati il culto della ragione e il concetto
romano di legge; tale instabile unione ha visto sempre più predominare la
razionalità tenco-scientifica, nata dalla ragion dialettica ed agonistica
dell’antica Grecia, ma fuori del quadro di riferimento dell’antica Grecia e
divenuta sottomessa all’utile. L’universalismo illuministico ha in poche parole
giustificato il predominio di tale razionalismo, che si è preteso il dominatore
assoluto, ha sconfitto i suoi decaduti concorrenti fino a dominare
incontrastato la scena. Poi la scena ha cominciato a sfuggirgli di mano. Ma il modello d’universalismo il progetto
illuministico l’ha mutuato dall’universalismo cristiano, pur rifiutando
quest’ultimo nella sostanza, non nella forma. Così, per un apparente paradosso,
il Cristianesimo si trova in crisi tremenda come il progetto illuministico, da
esso combattuto per lungo tempo, però alla fine accettato, accettato proprio
quando il progetto illuministico stesso ha cominciato a perdere contatto con la
situazione, ha cominciato a non rispondere più ai bisogni ed alle richieste che
gli erano fatte in un linguaggio che non poteva né capire tantomeno accettare.
Così, stiamo vivendo anche la fine del Cristianesimo, che non può essere
risolta con raduni di massa così come l’ulteriore proseguimento dello sviluppo
tecnologico non risolve la crisi dell’illuminismo. Ma non è la fine del lato più interiore del Cristianesimo: non passa
l’escatologia, piuttosto è’ la fine del Cristianesimo come magistero “morale”,
come riduzione della religione alla “morale” (cfr. le opere di S. Quinzio, in particolare Mysterium Iniquitatis, Adelphi 1995). La
tendenza a ridurre la religione alla moralità è tipica della modernità. E’ una
tendenza chiaramente esposta da Spinoza, che ha limitato “l’autorità della
religione alla moralità” (Strauss - Cropsey,
cit., p.238) allo scopo di dimostrare “che la dottrina politica della ragione
naturale è in armonia con la moralità rivelata” (ibid.). Per Spinoza: “La vera
religione ha autorità esclusivamente sull’azione; qualsiasi religione che
rivendichi il diritto di esercitare un’autorità teorica è superstizione” (ivi,
p.237). Vale a dire che tutto il contenuto sapienziale delle religioni è zero!
Il cristianesimo, al contrario, è finito proprio
perché si è ridotto a sola moralità. La Weil ha avuto il merito di partire
da talune idee giuste di Spinoza per poi allontanarsene proprio in direzione
del sapienziale, a mio parere, però, non riuscendo a far del tutto i conti col
retaggio spinoziano.
Quest’abbandono sarebbe una vera liberazione,
oltre che una riapertura dei giochi. L’impolitico è stata una fase necessaria,
perché senza di essa, senza la fase critica della modernità, uno scopo siffatto
non sarebbe concepibile come realmente realizzabile, ma solo come teoricamente
possibile. Nondimeno, è stata una fase negativa,
in cui troppo spesso si son cercate alternative in mere reazioni. Quella fase è
comunque conclusa. Si deve vedere verso cosa tende ora la situazione venutasi a
generare, situazione che può aprirsi a due vie, le uniche rimaste: da un lato
si può continuare a decomporsi seguendo un progetto che ha ormai di fatto
esaurito la sua fase di maggior potenza; dall’altro si può spingere perché si
operi un taglio decisivo, e si attui definitivamente il passaggio d’epoca non
ancora concluso. La forza che l’Occidente ora può ancora mostrare è una forza
incrinata, che non può ingannare se non chi si vuol illudere. Un conto è quando
un albero dà le sue ultima fioriture, ed è maturo a morire (è una fase che
tutte le civiltà hanno vissuto), ben altro è quando dal basso spuntano dei
nuovi germogli, dimostrazione di vitalità in un mondo morente. E’ facile
confondere i due fenomeni, come fan tutti i “cantori” della globalizzazione, ma
pure i seguaci della “new age”: precisamente confondono, seppur su piani diversi e con differenti accentuazioni e colorazioni, l’ultima fioritura d’un
albero morente con la prima fioritura d’un virgulto nuovo. Quest’ultimo può
anche venire dallo stesso albero, ma
spunta dalla radice, non dai rami; cioè, non si vede facilmente da dove
spunti fuori, se si guardano i rami già
cresciuti ed apparentemente forti, ma in realtà estenuati.
Ma qual è la differenza ad occhio “nudo”?
Le ultime fioriture hanno vita facile, non
devono combattere per venir fuori, mentre i nuovi virgulti hanno dovuto combattere
per venir fuori. Combattere per venir fuori, non per sussistere: se son riusciti a vedere la luce, allora hanno
molta forza. Per gli altri è precisamente l’opposto: il loro problema è
sussistere perché il progetto cui son legati si è troppo allontanato dalla situazione reale: è proprio il caso del progetto
illuministico in relazione alla residua espansione dell’Occidente nota come
globalizzazione, ed in relazione al progresso tecnico. Nessuno dei due può
continuare ancora per molto sia per consunzione del progetto stesso sia per
l’estenuarsi delle società occidentali in una situazione globale piuttosto
difficile.
Di
fatto, l’avanzamento tecnico un tempo consumava solo la natura, ora è da tempo
che consuma la società erodendone pezzi considerevoli: è uno degli effetti
della globalizzazione proprio in Occidente, il luogo da dove si è iniziato il
processo.
Ma intanto il progetto illuministico nella
sua fase di forza ha praticamente inibito e concretamente compresso ogni altra
possibile via; la stessa religione, se ritorna in auge, non lo fa di certo come
grande religione, ma di fatto si
risolve in un violento nazionalismo religioso (il caso dell’Iràn è davvero
esemplare, qualcosa di simile serpeggia potente nel sottosuolo della Russia). A
questo punto, la capacità effettiva della religione di fornire un progetto
alternativo è molto scarsa. La
situazione non è dunque semplice: entriamo allora in una fase di grande instabilità. Di fatto stiamo
andando verso il “caos sistemico”, cioè lo stato caotico dell’intero
sistema-mondo nato con l’epoca delle cosiddette grandi scoperte geografiche
(cfr. Hopkins e Wallerstein: L’era della transizione. Traiettorie del sistema-mondo 1945-2025,
Asterios 1997); detto altrimenti: è la
fine della modernità. Il taglio del nodo di Gordio del progetto
illuministico non ha né può
avere lo scopo di riportare il
sistema, che ormai è molto vicino al “punto di ebollizione”, ad una temperatura
più bassa e controllabile. Ha invece lo scopo di lasciarsi la via libera per
poter agire, senza più l’ingombro d’un progetto illuministico assai datato che
ha perso contatto con la situazione del nostro mondo com’è. Se non può esser
tagliato il nodo di Gordio, cosa più che probabile perché il progetto
illuministico, lo sviluppo tecnico e la globalizzazione, se non hanno più il
controllo completo del sistema-mondo i cui pezzi si vanno frammentando, hanno
forza sufficiente per impedire a
qualsiasi altro progetto di aver influenza decisiva,
si può staccare il nodo della correggia senza tagliare il nodo stesso. Difatti,
“Aristobulo, uno che faceva parte del seguito di Alessandro, racconta che
questi si limitò a sfilare dal timone [del carro] il cavicchio che tratteneva
la correggia, liberando così il giogo dal timone stesso” (E. Jünger-C. Schmitt: Il nodo di
Gordio, il Mulino 1987, p.136). Le
due cose non si escludono affatto.
L’importante è che il nodo di Gordio più non guidi il carro e che l’agire sia libero dalle pesanti ipoteche che il
progetto illuminista in crisi pure continua a far pesare gravemente, così
potendosi cominciare a far di nuovo corrispondere l’agire alla situazione concreta, reale del nostro mondo presente.
In un caso come nell’altro, che si continui
ciecamente sulla china di forza falsa e incrinata in cui siamo, sia che, pur
non potendo arrestare il naufragio, pure si stacchi il nodo di Gordio,
liberando così uno spazio di manovra, si
apre una nuova partita, il cui
esito non è affatto certo né chiaro. La partita dell’illuminismo e della
modernità volge fatalmente al termine, lo si voglia vedere o non. Si ha solo la
scelta fra l’accettare la partita o subirla; la partita non si può non giocare,
non è l’uomo il capo del gioco né fa le regole. Tuttavia, solo staccando il
nodo di Gordio dal carro, come qui simbolicamente indico l’agire necessario, è possibile realizzare la decisione, arrivare al momento decisivo e compiere così quel passaggio
d’epoca verso il quale la stagione dell’impolitico e tutta la corrente nascosta
del nostro secolo morente hanno teso con tutte le loro forze, ma senza poter
concretizzare. Non c’è in concreto
nessun’altra via.
Si profila un nuovo confronto di fronte a
noi, mentre, non più lontano, s’avvicinano “i figli di Mímir / e il fato
s’infiamma / al suono / di Gjallarhorn” (Völuspá,
XLVI).
Andrea [A.] Ianniello
Caserta, 22/02/1999 – 23/06/1999
Revisione con aggiunta di note:
09/07/1999 – 16/07/1999
(30 anni esatti dallo sbarco sulla Luna)
[1] Fermo restando che “per la Weil tra libertà e
necessità s’instaura una relazione che non è di semplice opposizione” (R. Esposito: Categorie dell’impolitico, cit., p. 206).
[2] Sulla similarità di tale quadro con quello freudiano
dell’orda primitiva e dell’uccisione del “padre”, vera e propria ossessione
vittoriana del padre-padrone caricaturale
nel suo eccesso e debole nella sua ostentazione di una forza falsa, cfr. Esposito: Communitas, cit. pp. 22-28.
[3] Dalla frattura degli anni ’60 le cose non si sono risaldate né risolte, solo mascherate. Risultato: lo stato di
deragliamento è aumentato, solo è
divenuto meno appariscente, quasi lo
stato “normale”. Tutte le ricerche sullo stato psicologico delle ultime più
giovani generazioni non fan che confermarlo.
[4] “Dove appare evidente che il rischio protototalitario
di Rousseau stia non nella contrapposizione del modello comunitario a quello
individuale, ma nella loro compenetrazione reciproca che disegna la comunità
sul profilo dell’individuo isolato ed autosufficiente” (Esposito, Communitas…,
cit., p.47).
[5] “Ciò che si
ritira, propriamente, è qualsiasi rapporto simbolico tra politico e sociale.
L’equilibrio degli interessi è garantito da questa rottura, dall’abbandono di
ogni pretesa organica di ‘sintesi a priori’. La sintesi non può essere che
semplice mediazione, puro negozio tra parti interamente governate dall’interesse economico. E infatti, lo Stato
agnostico, neutrale, della tradizione liberal-democratica è lo Stato
dell’autonomia dell’economico. E’ quest’ultima a liberare l’individuo dai
vincoli personali e gerarchici dell’ordine premoderno e ad affidarlo al dominio
‘assoluto’ del mercato. Così come è l’assoluta scambiabilità della merce a
fondare il diritto uguale” (Esposito, Categorie…, cit., p.23, sottol. mie).
Ma è proprio questo stato al capolinea oggi, perché il suo dominio non riesce
più a gestire le contraddizioni provocate dal suo stesso dominio.
[6] Secondo
Esposito: “Il rischio c’è, lo ripeto. Eppure tutto il percorso di pensiero che
è nato dal libro si è caratterizzato, in questo decennio, proprio per il
tentativo di smarcarsi da esso” (Esposito, Categorie…, cit., p.XXI). La ricerca di
Esposito sul tema della communitas
nasce dal tentativo di smarcarsi da tale “deriva gnostica”, o
“gnosticheggiante” per meglio dire; essa tende a immettere, più o meno
consciamente, quel particolare tipo di dualismo, tipico dello gnosticismo della
fine del mondo antico, nell’impolitico.
[7] Il che lo lega
a Heidegger e soprattutto a Jünger.
[8] Ma il ritorno
dell’Europa alla centralità può nascere solo
dall’accettazione della fine, del naufragio.
Tutto il resto son parole al vento.
[9] Dove trova il
suo limite è nel proporre la Chiesa cattolica come soluzione del problema:
troppo la Chiesa si è allontanata dalla situazione reale e, in definitiva, da
se stessa. Una rivisitazione delle dottrine controriformiste adattate ai tempi,
è questo l’orientamento dell’attuale papa Giovanni Paolo II e di buona parte
della Chiesa, non risolve il nodo scorsoio. Né lo risolve l’altro grosso
battaglione, ma meno grosso, quello dei modernisti alla Vaticano II. Ma il
problema non si risolve neppure seguendo la minoranza “tradizionalista” (alla
Lefebvre). Il nodo si può scioglier solo facendo appello ad un ordine
superiore, che la Chiesa non ha in sé, né la Chiesa ha il potere di risvegliare
la spiritualità delle Origines.
Pertanto, il nodo si stringe.
[10] Un impolitico
assai politico, se mi si perdona quel che solo all’apparenza è un gioco di
parole.
[11] Personalmente
non sono di quelli che considerano la guerra evitabile sempre. Di qui a voler
fare i “poliziotti” del mondo la strada è lunga, strategia perdente sulla lunga
distanza, oltre che priva di visione, perché si spreca un potenziale militare
sempre utile in caso di disastri più grossi, disastri che proprio questa
politica miope ha contribuito, e contribuirà, a generare.
[12] “[…] il ritiro
è l’unica modalità di essere dell’origine. Va subito detto che Rousseau non
compie quest’estremo passaggio al quale spingerebbe la logica del suo discorso”
(Esposito, Communitas…, cit., p.38). Ma non solo Rousseau, tutta la modernità
si definisce contro o almeno allontanandosi dall’Origine, Origo, Oriens.
[13] Ma non parli
troppo di tramonto chi ama l’alba, ché l’alba è nel tramonto.
[14] Il soggetto ci
viene dall’“io penso” di Descartes, ma è nel secolo scorso che ha festeggiato i
suoi noiosi fasti. Ora, il nostro secolo ha cordialmente odiato il secolo
scorso. Come un filo rosso l’insofferenza per il XIX secolo ha percorso tutto
il XX secolo, finito ormai. Due gruppi ci sono stati nel XX secolo: per o
contro il secolo XIX. Il guaio è che la politica, l’economia e la scienza-tecnica
(pur con dei dissensi più o meno forti) son rimasti ancorati al XIX secolo,
generando così una schizofrenia intollerabile.
[15] Di Guénon? E’
da discutersi. E’ nota la differenza polemica tra i due.
[16] Sui malintesi
relativi al capo carismatico, cfr. le varie opere di L. Cavalli. Riguardo
all’abuso di tale termine così come ai noti equivoci relativi al rapporto fra
leader carismatico e democrazia, cfr. L. Cavalli:
Carisma. La qualità straordinaria del
leader, Laterza 1995.
[17] Quella di
Evola ed anche, con molto minor radicalità, di J. Ortega y Gasset.
[18] Scriveva
Weber: “Nessuno sa ancora chi, in futuro, abiterà in quella gabbia, e se alla
fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime o una possente
rinascita di antichi pensieri e ideali, o se invece (qualora non accadesse
nessuna delle due cose) avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata,
adorna d’una specie d’importanza convulsamente, spasmodicamente
autoattribuitasi. Poiché invero per gli ‘ultimi uomini’ dello svolgimento di questa
civiltà potrebbero diventar vere le parole: ‘specialisti senza spirito,
edonisti senza cuore: questo nulla s’immagina di essere asceso a un grado
d’umanità non mai prima raggiunto’” (M. Weber:
L’etica protestante…, cit.,
pp.240-241).
Con gli anni ’80 la gabbia di
ferro, ultimata, viene saldata e chiusa. La situazione si fa terribile per le
nuove generazioni: o conformarsi per essere “specialisti senza spirito” o
“edonisti senza cuore” o nascondersi. Da quel momento, niente è cambiato, è
solo peggiorato. In questa fine anni ’90, poi, si sta verificando un ritorno di
millenarismo, ma che non vuol modificare la società, ed inoltre, essendo conseguenza della stasi degli anni ’80, sovente degenera in violenza estremistica e
vuota di senso. Detto altrimenti: il fenomeno si è ripresentato, ma incattivito
e degenerato perché si è trovato di fronte ad un muro. Uno dei pochi che pensa
che il mero muro a nulla porti è M. Introvigne; bisognerebbe “drenare” il
fenomeno, ma la cultura attuale, figlia
del successo fallimentare del
progetto illuministico e della
secolarizzazione, nulla può contro tale fenomeno che risulta incapace a saper drenare.
[19] Attualmente si
abusa di tale termine confondendolo con “popolarità”, la quale può essere
costruita e non venire affatto dalla creatività individuale.
[20] Dal XVIII
l’Occidente è yin; l’espansione
avviene all’esterno, mentre all’interno c’è sempre maggior inerzia.
L’espansione tecnologica complica ed annoda il nodo di Gordio nato dal progetto
illuminista, che mai e poi mai si sarebbe immaginato d’esser lui stesso il nodo da tagliare! Il sogno della ragione, non
il sonno, genera di fatto mostri che non sa controllare. Poiché il capo
carismatico può essere un tiranno, vero,
“allora” non è bene che vi sia un capo carismatico, che dunque vien equiparato
ad un tiranno. Non vedo la logica della deduzione, che però s’inscrive
perfettamente nell’odio irragionevole del progetto illuministico per la
persona. Non condivido certe
affermazioni di Nietzsche, ma esse in parte si giustificano come avversione per
la greve cappa di pensiero nata dalla tendenza a voler tutto spiegare con
una serie di cause orizzontali concatenantisi tra loro senza spazio per altro.
La modernità è precisamente volere
tutto ridurre a questa gabbia di catene di ferro. Il suo perenne scacco nasce
dal fatto che si tratta d’un volere, non
d’un essere; un volere può essere limitato, le catene possono avere anelli
deboli, le gabbie falle o incrinature. Detto altrimenti, è un volere
l’impossibile, un volere ciò che non è.
[21] Queste parole
sono anche uno spartiacque, una lama sotto la quale si deve spietatamente porre
se stesso. Se poi ci si guarda intorno, quanti veri politici troviamo? Domanda
retorica.
Si deve avere quella calma che
sa guardare in faccia senza batter ciglio il sole più accecante, la notte più
fonda, o la propria morte, senza lamenti, sereno, guardare anche la fine delle
proprie speranze, tuttavia credendo in esse, ma senza mai essersene fatto
incantare. Non si parla dunque di quella ripulsa nervosa, o di quel coraggio da
reazione o da disperazione. E’ qualcosa di forte, ma sereno, tranquillo. Senza
serenità non c’è forza, ma reazione nervosa, ch’è un’altra cosa.
[22] Va
sottolineato temporaneo, cioè carismatico,
perché proprio questo differenzia
l’eroe, nel senso antico, dall’imperator,
dal faraone, dal Tianzi (Figlio del
Cielo), dal Tennô (Re Celeste)
nipponico, che, invece, hanno il ruolo istituzionale di Mediatore. In questi
ultimi la qualità di Mediatore appartiene alla funzione, nell’eroe appartiene alla persona. L’eroe può essere imperator,
ma non è affatto necessario che l’imperator
sia heros.
[23] La tradizione
celtica presenta sovente il ruolo dell’eroe maledetto, che si è perso. Si fa
così la fine di Macbeth, il “figlio dell’orso” come Artù, ma in senso nefasto,
ché Macbeth è un’anima persa, nera, bruciatasi. Shakespeare vi s’ispirerà in
una ben nota tragedia.
[24] Se ad un eroe
dell’antichità greco-romana, della Celtide o delle antiche Germania e Scandia
si fosse parlato dell’eroe come di una figura da predicare, da diffondere
perché “tutti” siano spinti ad esserlo, si sarebbe fatto una grossa grassa
risata.
[25] Non la
rivalutazione del più che datato La
distruzione della ragione di Lukàcs,
un testo veramente chiuso nell’ottica
razionale/irrazionale, chiaro esempio di quel marxismo ottuso che ha così tanto
contribuito al crollo del comunismo. “La nostra
forma di razionalità è ‘bene’, tutto il resto è non senso pagano”: ecco il
senso di quel libro; extra nostram
rationalitatem nulla salus. Feyerabend avrebbe fatto un paragone col Malleus Maleficarum trovando
quest’ultimo meno chiuso. Tra l’altro manca un enfant terrible come Feyerabend, non che ne condivida sempre le posizioni, ma gettava bei sassoni
dentro stagnanti ed immote acque… La rivalutazione di Ferraris è ben inscritta
in quel moto di neoilluminismo che oggi si vede, altro topolino uscito da un
grosso elefante. Alla crisi del progetto illuministico questi rispondono non
volendo vedere. Naturalmente con tali tendenze dominanti non ci si può certo
attendere che la lezione dell’impolitico sia compresa…
[26] Criticare
Wagner perché, dal punto di vista di Nietzsche, voleva un ritorno falso al
Cristianesimo mescolato con il germanesimo è un conto, ma tanta foga nel
criticarlo tradiva l’eccesso d’ammirazione di Nietzsche. Una cocente delusione
non poteva non seguire. Pertanto Nietzsche era troppo sensibile, oscillante,
instabile: è il suo lato peggiore. Davvero gli mancava, come Colli, curatore
dell’edizione critica ed estimatore, osservò, il superiore sguardo sintetico.
Era ancora troppo moderno. Moderno, troppo moderno…
[27] Su tali
critiche c’è solo l’imbarazzo della scelta quanto a citazioni. “L’uomo divenuto libero […] calpesta quella
specie di disprezzabile benessere che sognano i droghieri, i cristiani, i poltroni,
le donne, gli Inglesi e altri democratici. – L’uomo libero è guerriero” (Nietzsche: Il
crepuscolo degli idoli, I Dioscuri 1990, p.130). E ancora: “Alla scuola di guerra della vita. – Ciò
che non mi uccide mi rende più forte” (p.40). Quest’ultima citazione si trova
in calce a “Conan il barbaro” (1981), film di John Milius, a conferma della
presa che Nietzsche, a differenza di quasi tutti i pensatori più o meno validi,
ha sempre avuto sull’immaginario collettivo. Anche più forte poi la presa di
Nietzsche in certi ambienti che sono una specie di sottosuolo nel senso di Dostojevskij, il sottosuolo dell’attuale
impero globale americano, il suo ventre molle. Si tratta di ambienti che le
attuali istituzioni snobbano, ma che pur ci sono hic et nunc. E tale sussiego è prova certa di debolezza. Nel sottosuolo Evola è ben visto a misura che riecheggi
Nietzsche, ma c’è un altro “autore” che riecheggia il culto della forza
nicciano unendolo con un magismo
“tantricheggiante” deviato molto più di Evola, che pure tentò la liaison dangereuse; quest’autore è
Aleister Crowley, che è “alla base dell’attuale risveglio dell’interesse nella
Magia, tanto da essere definito dalla stampa ‘underground’ come ‘l’eroe
sconosciuto’ della nostra generazione” (Intr. Di G. Jerace ad A. Crowley: Trattato di astrologia magica, Basaia 1984, p.12). Dagli anni 80 ad
oggi le cose sono molto peggiorate, incancrenite grazie alla completa sordità
delle istituzioni perse nel loro narcisismo. Occorre conoscere questo
sottosuolo, e lo si conosce solo se lo si è già conosciuto. Il solo M.
Introvigne mi sembra per lo meno in parte tener conto di tale sottosuolo.
E’ giunto il tempo di scrivere Nuove memorie del sottosuolo. Fu quel
sottosuolo “nettuniano” scosso da un terremoto sottomarino a rendere la Rivoluzione
Russa del ’17, in sé un colpo di mano, un colpo di stato estremamente abile
condotto con forze incredibilmente esigue e senza spargimento di sangue, quel
susseguente tremendo tsunami
distruttore. Vedeva dunque bene Jünger: “Mi domando perché io mi sia sentito
più debole, più vulnerabile dopo la sconfitta della prima guerra mondiale che
non dopo quella della seconda, benché la catastrofe sia stata nella seconda
ancor più grande. Probabilmente, si erano raggiunti allora strati più profondi,
soprattutto grazie alle radiazioni della rivoluzione russa” (E. Jünger: Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza, Multhipla 1982, p.207). Un
piccolo terremoto sottomarino può diventare onda-muro terribile. Ciò può di
nuovo accadere in forme diverse,
chiaro. Ma le forze disponibili ci sono. Sempre male incoglie alle istituzioni
lontane dal “nettuniano” Zeitgeist.
[28] Ferraris ha
una vera e propria caduta di stile quando afferma in sostanza che il successo
di Nietzsche sia dovuto al suo essere “spesso – non sempre […] – un grande
scrittore” (intervista su “Il Manifesto”, cit.), e “questo spiega perché nelle
edicole delle stazioni si trovino i libri di Nietzsche” (ibid.). Invece,
disgraziatamente, nelle edicole delle stazioni, ahimè, non si trovano i libri
di Ferraris o di altri studiosi contemporanei di filosofia…
[29] Il perfetto
distacco, il perfetto non-agire: abbandono anche dell’attaccamento al
non-agire: sì, questo è vero
non-agire, silente possente corrente che attraversa nascosta il tumulto d’onde
dell’oceano della vita, oceano talvolta calmo, sovente in tempesta, corrente
profonda che mai onda, tsunami o
procella potrà fermare. Così è di chi attinge all’essenziale tralasciando l’accessorio: ecco l’insegnamento di
Lao-tse [Laozi], ecco il non-agire. Sapienza essenziale, sapienza segreta,
felicità semplice, senza voli, senz’apparenza, umile, mite, forte, decisa,
potente, “fiocco di neve sulla stufa rovente” (come disse Shingen a Kenshin che
calava di sorpresa un colpo di piatto con la spada). E’ questo anche il segreto
delle arti marziali d’Oriente: nel pieno dell’azione preservare, tuttavia senza
negare l’azione stessa, il nòcciolo calmo della non-azione.
Non è vero che tali cose
fossero sconosciute nel mondo precristiano, come dimostra il più grande scaldo
scandinavo Egill Skallagrimsson nel suo Sonatorrek
(Perdita dei figli), dove narra del
suo rapporto col suo dio (Odino). A lui aveva chiesto la protezione dei suoi
figli, ma il dio aveva poi volto il suo sguardo altrove (“Il mio collega F. W.
Förster […] crede […] [in] questa semplice tesi: dal bene può derivare soltanto
il bene, e dal male soltanto il male. […] E’ però sorprendente che 2500 anni
dopo le Upanishad si sia potuto
ancora sostenere una simile tesi. Non soltanto l’intero corso della storia del
mondo, ma anche un esame spregiudicato dell’esistenza quotidiana c’insegna
esattamente l’opposto. Lo sviluppo di tutte le religioni sulla terra è fondato
proprio sul fatto che è vero il contrario” (M. Weber,
op. cit., p.112)). Questo fatto sconvolge Skallagrimsson: non crede più in
Odino. Eppure, alla fine guarda oltre, vede
che il dio non l’ha mai abbandonato, gli ha dato il dono della poesia, ha fatto
di lui un uomo integro. E allora il poeta: “Ma sereno, ma forte, / senza
lamentele e senza paura / gioioso attendo l’arrivo della Morte [di Hel, l’oltretomba]”. Egli comprende, si
direbbe in linguaggio cristiano: ha fede.
La fede vera implica il non-agire?
Sì.
[30] “Quando
parliamo della storia delle scoperte geografiche, o, con una frase ormai
divenuta di uso comune, della ‘conquista della Terra’, non sempre ci rendiamo
conto dell’esatto significato di quest’espressione. In altre parole, non sempre
pensiamo chi debba essere considerato il personaggio principale di questa
storia e di questa conquista […], e senza il quale […] una storia […] di questa
conquista non esiste: l’uomo mediterraneo.
La storia delle scoperte
geografiche è in realtà la storia del lento ma continuo diffondersi della
civiltà mediterranea per tutte le regioni del globo: gli uomini han conosciuto
ed occupato a mano a mano i continenti ma solo l’uomo mediterraneo li ha
conquistati. Non possiamo dire se la sua civiltà sia realmente superiore alle
altre e nemmeno se essa abbia sulle
altre una precisa priorità nel tempo; ma è certo che nessun’altra civiltà ha
avuto la stessa esigenza e la stessa capacità di penetrazione, […] nessuna è
andata con uguale tenacia alla conquista del mondo. […]
Nessuna meraviglia se questa
civiltà è andata via via a cercare le altre per imporsi ad esse con la
tranquilla coscienza d’un diritto, con il disinvolto senso di conquista. Anche
da questo punto di vista la parola ‘conquista’ è rivelatrice: non solo
presuppone l’iniziativa di un soggetto ma […] ne illumina la segreta prepotenza
o addirittura l’incoffessato sopruso. Sarebbe difficile dire se, l’8 luglio
1853, quando quattro navi da guerra statunitensi gettarono l’ancora davanti
alla baia di Tokyo [Edo] […] la saggezza e la giustizia fossero dalla parte del
commodoro […] Perry […] o da quella dei Giapponesi, che da due secoli s’eran
barricati nelle loro isole rifiutando ogni contatto col mondo occidentale e
conducendo il periodo più sereno della loro esistenza. Ma certo, quel giorno,
al piacere di vivere, che i Giapponesi tentavano di difendere […], si opponeva
la necessità di navigare, a cui gli Americani obbedivano con tutta la pratica
decisione degli uomini dell’occidente. E ancora una volta s’imponeva l’antico
paradosso: navigare necesse est, vivere
non est necesse. Navigare è necessario, vivere non lo è; ossia la vita attiva
e creatrice è la sola veramente necessaria, la vita serena è inutile.
In questa priorità praticamente affermata del divenire sull’essere […]
sta il nucleo dello spirito occidentale, in
netto contrasto con lo spirito
originario dell’oriente; inutile domandarsi quale sia il più saggio:
possiamo solo riconoscere che il primo è più vitale.
Per questo la conquista della
terra doveva essere un fatto mediterraneo e, quindi, un fatto europeo” (U. Dèttore: Storia delle esplorazioni, De Agostini 1965, pp.3-4, sottol. mie).
Non c’è dubbio che da molto
tempo lo spirito occidentale è più vitale, la crisi dell’Oriente tradizionale
derivando dalla sostanziale non vitalità della sua grande tradizione, con la sola eccezione del Giappone, l’unico paese dell’Oriente ad entrare in contatto con l’Occidente moderno
in crisi ma non estenuato o devitalizzato. E quindi l’unico paese
dell’Oriente ad aver attivamente
risposto alla modernità occidentale; Quel che storicamente si è generata è una
forma ibrida di cultura tradizionale
e moderna. Quest’ibridazione, poi, si sarebbe generata in un modo o in un altro
in tutti i paesi dell’Oriente,
Vicino, Medio od Estremo, ibridazione che si è attuata e si attua in molti gradi e con mille sfumature.
L’aspetto yang dell’Occidente, sia moderno che premoderno, la sua tendenza
espansiva, nasce dalla mancanza, dallo yin,
che l’Occidente ha in sé. Sarebbe sbagliato considerare questa mancanza un male
“in sé”, perché proprio la mancanza spinge a riempirla, cioè muove all’azione.
E’ sempre lo yin che si muove verso
lo yang; quest’ultimo, di conseguenza, vien sollecitato ad
espandersi. Lo si vede persino nell’elettricità: è il “catodo”, discensivo,
cioè gli elettroni, che si muovono verso l’”anodo”, ascensivo; come risultato
del flusso, del processo, un
filamento od un gas vengono stimolati fino ad emettere luce. Lo yin si muove verso lo yang; questo si espande, interagendo con
un sostrato: quest’interazione
conseguente è il fenomeno.
Un tempo, l’Occidente era yin, di
conseguenza si espandeva. Oggi l’Occidente è yang, di conseguenza
l’Oriente moderno tende sempre più ad espandersi. Questo cambiamento di
polarità della storia è un fatto troppo grande per passare inosservato.
Beninteso, non si deve aver
l’illusione di opporre alla mancanza storica dell’Occidente il “tutto pieno”
dell’Oriente, “tutto pieno” che storicamente
non si è realizzato mai; mi sembra questo il limite dell’opera di Guénon,
prima di talune rettificazioni finali, anche se posso esser d’accordo con
quest’autore quando scriveva d’una certa maggior manchevolezza (più yin) presente anche nell’Occidente
tradizionale. Senza voler tornare ad un “tutto pieno” storicamente non
realizzato ed attualmente impossibile, ed accettando il naufragio in cui sbocca la modernità, pure ci dev’essere
un ri-orientarsi. Ed orientarsi vuol dire guardare ad Oriente, all’Origine che,
per quanto inattingibile in quanto tale, non
esclude l’atto di orientarsi verso di essa. Ed è questo il punto-chiave. L’idea
di Guénon (espressa in Oriente ed
Occidente) sui rapporti fra Oriente ed Occidente, “intesa, non fusione”, costituisce uno spunto fecondo. Si tratta di
un’intesa possibile, ma sinora disattesa, che non va confusa con la “voga”
dell’Oriente. Ma tutto ciò va oltre i limiti del presente studio.
[31] E’ vero che
“il matematismo spinoziano, inteso come scienza che privilegia i rapporti non rappresentabili a livello
sensitivo-immaginativo […] spinge la Weil in direzione gnostica” (Esposito: Categorie…, op. cit., p.205), ma resta il punto di vista
“matematista”. Si resta cioè nell’àmbito di quel contrasto
razionalismo/empirismo totalmente lontano
ed estraneo al pensiero orientale.
[32] E’ molto
interessante il riferimento a Ben-Ami Shillony ed al suo saggio del’91 basato
sull’effettivo parallelismo esistente fra Giapponesi ed Ebrei.
[33] Un oggetto è
rosso perché assorbe tutte le lunghezze d’onda dei raggi luminosi tranne quelle del rosso.
[34] “Secondo me,
la causa principale del fallimento del ‘dibattito sulla modernizzazione’, […]
nel caso giapponese, può essere attribuita al fatto che la distinzione (dopo
tutto ovvia) tra il livello tendenzialmente particolaristico dei valori della
singola tradizione culturale […] non è stato valutato sufficientemente alto” (Mazzei, cit., p.12).
[35] Ad esempio, il
taoismo vede l’assoluto (Tao)
presente nella Natura, che dunque occorre seguire (non diversamente
dall’Ermetismo, dunque, tradizione minoritaria in Occidente però). Che poi la
religione taoistica storica in sé
abbia forme particolari cinesi (come divinità particolari) è vero, ma i suoi
valori sono universali. Lo Shinto è simile al Taoismo religioso [tao-chiao, daojiao] come culto che vede il Divino nella Natura, ma la Deità
principe dello Shinto, Amaterasu
Ômi-kami, la dea del Sole, è propria solo del Giappone, per cui veicola
valori che possono essere vissuti pienamente dai soli Giapponesi.
[36] Sta in questo
la particolarità del presente studio.
[37] “[…] è
importante notare che c’è una tendenza crescente oggi a parlare di
particolarismo o anche di ‘eccezionalismo’ riferendosi alla civiltà occidentale
stessa. […] Attualmente, ci sono molti segni che la globalizzazione della
tecno-economia non sta portando all’universalizzazione dei valori della civiltà
occidentale ma piuttosto a una frammentazione culturale del mondo […]. Una sorta
di barocchismo culturale sembra caratterizzare la comunità internazionale in
questa fase di post-bipolarismo e di ‘fine delle ideologie’” (Mazzei, cit., p.14). Questo studio di F.
Mazzei è molto importante sia per uno sguardo generale sul problema, sia per
una disamina delle posizioni dell’intellighentzia
nipponica, sempre oscillante fra modernità e tradizione (in questo differente
dalla modernità occidentale, oscillante fra modernismo illuministico, sua
critica e barocchismo: il tutto con mille differenti gradazioni e posizioni).
Ma è un lavoro molto importante anche per le conclusioni, quando vi si legge
che “non c’è dubbio che l’occidente ancora ‘non prenda il Giappone seriamente’”
(ivi, p.74) e che nelle scienze sociali si sente forte la necessità d’una revisione generale. E ancora: “E’ forse
concepibile che un giorno le opposte sponde dell’Eurasia – Europa e Giappone –
come poli della ‘ragione forte’ e della ‘ragione debole’, del dualismo e del
monismo organico, della sostanza e del processo, d’individualismo e
comunitarismo, s’incontreranno; ma […]
tale convergenza non avverrà nella traiettoria della modernità, che sta
attraversando una profonda crisi in Occidente. L’armonizzazione […] può
avvenire se […] da un lato l’Occidente ha la volontà di rinunciare una volta per tutte alla ‘verità
universale e assoluta’ e alla ‘storia totalizzante’, e dall’altro il Giappone
si mostra capace di rompere la conchiglia restrittiva ma rassicurante del suo
‘particolarismo culturale’” (ivi, pp.74-75, corsivi miei).
[38] “In Giappone,
come in altri paesi della civiltà sinica, la legge è essenzialmente ‘legge
dello stato’ e non ‘legge dei
cittadini’ […]. La grande codificazione della Cina imperiale, diversamente
dalla tradizione occidentale, non ha diritto privato” (Mazzei, cit., p.25, sottol. mia). La distinzione fra un
piano etico individualistico e la
legge politica è una caratteristica
della modernità. Che quest’ultima sia in collasso nelle società (e non più solo nelle teorie filosofiche) si dimostra col fatto che sempre più
etica e legge vanno mescolandosi, la qual cosa non accade nei paesi la cui tradizione si richiama all’universo
sinico. Questi paesi sono meglio equipaggiati per affrontare la crisi esiziale
del progetto illuministico. E’ il caso di riflettere per davvero sulla concezione sinica della legge? La lezione dei legisti
cinesi si riassume in due questioni: 1) che c’entra l’etica con la legge (apparente similarità con l’Occidente
moderno); 2) che c’entra l’individuo con la legge (=non vi è cittadino).
[39] In linea generale, la scultura
giapponese è superiore a quella cinese, in specie quella d’ispirazione
esoterica buddistica: ha più fuoco. Niente come quelle deità irose dà il senso
del terrore del samsâra, dell’oceano
smisurato, del naufragio nell’oceano, delle onde anomale; e qui torniamo alla
navigazione, ma intesa come terribile. Il terribile del mondo e dell’oceano
ribollente della vita non poteva che percepirsi di più sulle isole nipponiche,
ultimo lembo di terra dirimpetto al “grande fiume OkeanoV” che sulla terraferma cinese. Anche per questo ho
scelto il Giappone come specchio. D’altro canto, si potrebbe a lungo discettare
sul rapporto terra/mare nel caso Cina/Giappone, dove il Giappone è di nuovo mare come l’Europa e l’Occidente atlantico
e americano, però ancora una volta in senso inverso all’Occidente. Non più il mare come dimensione della
conquista in cui ci si perde, e neppure il luogo dell’altro, ma l’estremo limite dove un processo
s’inverte e comincia pian piano a tornare indietro come un’onda. E, a pensarci
bene, cos’ha fatto il Giappone se non
quest’azione di limite? Quanto consapevolmente, è un altro discorso; ma
sempre questo ha teso e tende a fare. Ed infine: cos’è la modernità se non una gigantesca onda anomala che raggiungendo
i limiti non fa che generare nuove onde e contrarie di ritorno?
Una grande onda anomala come la Grande Onda di Hokusai.
[40]
Beonio-Brocchieri ha espresso la polarità “sostenendo che ‘la filosofia
sino-giapponese non riposa su di un concetto statico ma su di una visione
dinamica d’una realtà sempre cangiante, perciò non su di un’ontologia sempre
perdurante’ [Beonio-Brocchieri]. In aggiunta, queste culture hanno optato per
una razionalità più flessibile in cui la legge di non-contraddizione è
relativizzata, applicata con minor severità, mentre quella del terzo escluso
può diventare inoperativa. […] A tal proposito ci si fa ricordare l’approccio
‘obliquo’ del pensiero cinese e la ‘doppia verità’ del Buddismo” (Mazzei, cit., p.19).
La doppia verità non è quella
dell’Averroismo latino, che nasceva dall’incomprensione di Averroè, il quale
sosteneva che c’era un lato esteriore (essoterico, zhâhir) ed uno interiore (esoterico, bâtin). Il parallelismo zhâhir/bâtin
e yin/yang (ma l’ordine è inverso) è
uno spunto interessante, ma che ci porta fuori dai limiti del presente studio.
[41] Da notare come
tali idee “emanative” sono rimaste in Occidente in àmbito esoterico, dove molti
pensatori (Pico della Mirandola, Ficino, Bruno ed altri) han tentato di
conciliare, in un modo o in un altro, questo retaggio precristiano con il
concetto di creazione (riuscendoci più o meno). Discorso a parte va fatto per
la Qabbalà ebraica, dove il concetto di creazione si unisce in modi diversi col
concetto “emanativo” della Sefirôt (cfr. i vari studi di G. Scholem sulla
Qabbalà): di qui i contrasti con gli studiosi talmudici. Stesso discorso può
farsi nell’Islâm riguardo i rapporti fra l’esoterismo islamico e la teologia
ufficiale ash’arita del Kalâm.
Interessantissimo è il caso di
M. Ricci SJ e il suo concetto di Tianzhu
(Signore del Cielo) alle prese con l’assenza del concetto di creazione nella
cultura sinica (ma su ciò cfr. il mio M.
Ricci e la Cina della dinastia Ming (‘92-’93)).
Oggi, di fronte alla crisi
della razionalità e della modernità occidentali, il caso di M. Ricci può essere
molto interessante, comunque significativo. Soprattutto perché diventa sempre
più pressante l’esigenza di una visione di fondo diversa che, pur non negando legittime esigenze di
causalità, quindi non negando la
ragione, sappia inserirla in un più vasto quadro. Di quest’argomento tenterò
d’occuparmi proseguendo lo studio su Ricci da quest’angolazione ne Il neoconfucianesimo e la visione
organicistica rinascimentale. Sempre che ci sarà per me la concreta possibilità
di portare a compimento un’opera siffatta, ammesso e non concesso che tale
occasione vi sia, l’opera in questione si focalizzerà, grosso modo, intorno a
due interrogativi: 1) perché in Cina si riuscì ad unire due visioni, cosa che
il Rinascimento non riuscì ad operare (per
questo il Rinascimento fu più fuoco finale che nascita); 2) perché la
cultura sinica è stata incapace di rilanciare la propria cultura neoconfuciana
contro il dispotismo mentale della scienza-tecnica-economia occidentale.
[42] Ed a
distruggere la modernità stessa man mano che il retaggio greco distruggeva
quello cristiano. L’Occidente oggi è post-cristiano e tardomoderno, ma non
ancora postmoderno se con tale termine s’intende un reale superamento del moderno. Ci sarebbe da scrivere: La fine del Cristianesimo.
[43] Sulla scienza
nell’Islâm, cfr. gli studi di Seyyed Hossein Nasr. In relazione alla natura
della ragione greca, strumento di dominio, cfr. gli studi di G. Colli. “Quando
la si è colta nella sua origine, è possibile distogliere lo sguardo dalla
ragione. Essa appare allora, nel bene e nel male, come un incidente. La ragione appartiene naturalmente all’uomo, è chiaro, si presenta come una sua
manifestazione, o meglio è manifestazione
di qualcosa attraverso lui. Ma averla posta al vertice dell’interesse,
averne gonfiato e vantato smisuratamente le capacità, […] aver creato l’illusione di poter aprire con il suo
aiuto scrigni preziosi e rivelare misteri inebrianti, questo è un fatto incidentale, episodico, aberrante. Eppure non ci si è ancora
scrollati di dosso quest’avvenimento. In altri centri della cultura umana la
ragione rimase in disparte, o entrò in un giuoco equilibrato con i restanti
strumenti espressivi. In Grecia infuriò divampante, fu messa al centro, in
alto, creò il mito dell’eccellenza più eccitante dell’uomo, che assunse il
titolo di filosofia […]. Per secoli questa rimase sul trono, poi passò lo
scettro alla scienza, che rivelò e sfruttò i poteri della ragione nella sfera
dell’utile, dive il logos diventa
spurio; e sotto questo segno riuscirono le più difficili conquiste, caddero
persino, in direzione del sole nascente, le roccaforti di ciò che è interiore”
(G. Colli: Filosofia dell’espressione, Adelphi 1978, pp.172-173, sottol. mie).
In Grecia la liaison dangereuse non poté avvenire perché la concezione del sacro in
Grecia non contemplava il concetto di creazione. Gli dèi greci non possono
creare “dal nulla”, possono “inventare o trasformare” (B. Snell: La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi 1963,
p.56). I segni degli dèi greci son “tutte cose che, secondo le leggi della
verosimiglianza, non può ammettersi che avvengano proprio nel momento
desiderato” (ibid.), ma non implicano un sovvertimento dell’ordine naturale. E
tuttavia “gli dèi promuovono ogni mutamento. […] L’azione umana non ha inizio
effettivo e indipendente; quello che viene stabilito e compiuto è decisione e
opera degli dèi” (ibid.).
Ma c’è un altro punto
importantissimo. “L’uomo di Omero è libero davanti al suo dio; se ne riceve un dono
[…] è conscio che ogni grandezza deriva dalla divinità. E quando un uomo deve
soffrire per un dio, come Ulisse per Poseidone, […] contiene il suo sentimento
fra l’umiltà e l’arroganza. Ma non è facile rispettare questa sottile linea di
demarcazione […] e i Greci han sempre corso il rischio di superare con
presuntuosa temerarietà i limiti. Quest’ambiziosa passione (ciò che i Greci
chiamano hybris) l’Europa ha
ereditata dai Greci (nonostante il Cristianesimo, anzi in un certo senso potenziata dal Cristianesimo) come un vizio
contrapposto alle sue virtù, che ha
sempre dovuto duramente scontare” (ivi, p. 60, sottol. mie). L’Occidente
continua a pagarla: perciò non vuole recedere dalla “storia totalizzante”, cioè
dalla sua hybris.
[44] “U. von
Wilamowitz ha spesso notato […] che non può sorgere una scienza naturale, dove
esiste la credenza nella creazione del mondo” (Snell,
cit., p.56). Il che è dimostrato dal
mondo islamico.
[45] Il ceto colto
era il vettore del progetto illuministico. Col suo decadere, iniziato con la
prima metà del secolo, questo ceto si frammenta e perde il suo ruolo direttivo, non quello istituzionale; la differenza non è trascurabile. Ciò si
palesa come mancanza di vera presa sul sottosuolo, al quale il ceto colto si è
chiuso. Il dualismo della ragione, questo è molto importante, risulta falso qualora lo si applichi a cose
generali, non se lo si applica a casi
concreti. Pertanto, delle due l’una: 1) o si trova un modo per drenare il
sottosuolo, 2) o la presa su di esso,
già scarsissima, diverrà sempre più esigua, con delle conseguenze che ognuno
può immaginarsi a suo modo. L’ansietà serve a poco.
[46] Il
Confucianesimo non è una religione rivelata, “ma d’altra parte vi sono in
esso elementi decisivi che lo costituiscono quale religione se per tale
s’intende un intervento sull’uomo e sulla sua vita motivato da forze ed
interventi che attingono la loro ragione anche altrove che non nella sola
visione puramente intramondana. Tutto ciò induce a vedere nel Confucianesimo
un’etica della vita saggia e buona,
ma combinata con il Decreto del Cielo,
legata ai riti, eppur sempre proiettata verso il chung [zhong], il centro
di se stessi” (Tchao Yun-Koen: Il Confucianesimo, Rizzoli 1984, p.20).
I princìpi rimangono tali, ma non si trasformano in un’etica vista come
assoluta. Non è un caso che Hegel
vedeva il Confucianesimo debole dal punto di vista “etico”, quando l’etica è il
centro del Confucianesimo! Voleva
dire: non ha un’etica assoluta. Ed è così. “Dio” (Tian) sta nel mondo, che è “divino” (shen). Ma il Principio (Li)
non sta nell’etica, nell’agire umano.
Il che è speculare all’Occidente, moderno e premoderno, perché non c’è
“assolutismo etico”.
Va poi chiaramente detto che la
polarità stessa si risolve nell’Unità, T’ai-Chi
[Taiji], che non è mera somma dei due poli, ma unione che l’incorpora e li
“solve” (scioglie) senza però negarli o negarne il gioco di complementarità (e
opposizione come caso particolare).
Rimangono dunque distinti ma non
separati yin-yang.
[47] Persino nel
concetto romano d’imperator si
possono riscontrare molte similitudini.
[48] Il rapporto
fra Cina e Giappone trova un parallelo in quello tra Grecia e Roma, che, come
in ogni civiltà vitale e non decadente com’è invece la nostra, dove commercio e
tecnica sono al primo posto, si esprime bene nell’arte. “L’arte greca si è
sviluppata in seno alla religione greca […]. Essa è greca e proprio perché
greca è al tempo stesso universalmente umana. I Romani hanno svincolato il
linguaggio artistico dei Greci da questo mondo spirituale ellenico e l’hanno
adattato alla struttura sociale di Roma […]. Le connessioni ideali in base alle
quali all’arte romana vien proposta la concezione dell’uomo ripresa dai Greci,
traggono origine da nessi spirituali diversi: laddove i Greci dicevano ‘mondo’,
i Romani dicevano ‘stato’, ciò che era ‘mito’ diventa ora ‘storia’. In Roma la
prospettiva umana si restringe, ma diviene più reale” (B. Schweitzer: Alla ricerca di Fidia, Il Saggiatore 1967, p.393).
Laddove i Cinesi dicevano
“tutto sotto il Cielo” (tianxia) i
Giapponesi dicevano “la famiglia del paese” (kokka), carattere formato da koku,
“paese” (recinto con dentro giada, ciò che è prezioso) e ka (cin. jia), un maiale
sotto il tetto (cioè la famiglia, il gruppo). Laddove i Cinesi pensavano alla
cosmogonia, i Giapponesi alla “nippogonia” (Mazzei). La prospettiva umana si
restringe, ma diviene più reale, cioè più concreta, effettiva, percepibile, agente concretamente.
Ma c’è un altro parallelo
importantissimo. E’ la questione dell’età “assiale”, termine “usato da Karl
Jaspers che parlava di un’epoca nell’antichità (iniziata intorno al VI sec.
a.C.) come un punto di svolta nella storia del mondo, un’età che vide
un’esplosione d’energia intellettuale in tutto il mondo, producendo le grandi
civiltà della Grecia, d’Israele, dell’India, della Cina. Le civiltà assiali
produssero l’emergenza di visione trascendente, propagata da un nuovo tipo d’élite intellettuale, che differiva dagli
specialisti magici e rituali dei tempi precedenti: i filosofi e maestri della
Grecia, i profeti e sacerdoti d’Israele, i Brâhmana indù e i letterati cinesi.
Questa è una tesi molto controversa, che […] Eisenstadt stesse ammette non
applicabile alla cultura giapponese” (Mazzei,
cit., p.31). Questo nel senso che il Giappone non era ancora Giappone nell’età
assiale, non nel senso che l’età
assiale non investì il Giappone. E questa differenza che qui sottolineo è
davvero fondamentale, perché implica
che la cultura nipponica s’inserisce nell’alveo generato da quel cambiamento
“assiale”. Quest’ultimo investì la cultura del Giappone, ma dopo, per mezzo della cultura cinese come accadde a Roma che ne fu inglobata
per mezzo della Grecia: ed ecco il parallelo. Che comunque l’età assiale
(VI-V sec. a.C.) sia stato un punto-chiave, un punto di svolta, è un fatto.
Interessante quel che scriva T. Terzani, il noto giornalista inviato, pensando
all’età assiale nel corso dei suoi viaggi in Asia: “Che fantastica combinazione
di stelle doveva essere stata quella del quinto secolo avanti Cristo! Tanti
grandi, tutti nati allora: Sofocle, Pericle, Platone e Socrate in Grecia,
Zoroastro in Persia, Buddha in India, Lao Tse e Confucio in Cina. Tutti più o
meno nel giro di cent’anni!
Oggi nasce tanta, tanta più
gente! Ma non ne nasce uno così. Perché? La ragione è nelle stelle?” (T. Terzani: Un indovino mi disse, (Longanesi 1995) SuperPocket 1997, p.250). E’
la Rota Mundi, ormai quasi quadrata, ed anche
senz’altro l’influsso degli astri (stelle e pianeti)… I viaggi di Terzani sono
interessanti perché son fatti alla ricerca di un’Asia che sta sparendo, quella
differenza che si sta stemperando ogni giorno che passa, nonostante
l’ibridazione, cioè la reazione naturale
di quelle culture, di fatto rallenti la perdita. Ma discutere di questo volto
che sta “evanescendo” va ben oltre i limiti del presente studio. Conta dire
solo che non ignoro quel volto, e non ignoro che sta sparendo.
Con l’età assiale possiamo dire
che è nato l’universalismo, un
sistema di valori che può esser fatto proprio da ogni uomo indipendentemente dall’etnia lato
sensu : questo è il punto-chiave di quel rivolgimento. Prima vi era solo il
dio etnico, come a Babilonia, ogni
luogo di culto del dio essendo il centro del mondo: “L’uomo è il servitore
degli dèi; e ogni primo giorno dell’anno [=12 aprile], gli dèi si recano al
santuario di Marduk a Babilonia, per rendergli omaggio, e là egli annuncia le
sorti e il futuro del mondo” (Th. Gaster:
Le più antiche storie del mondo,
Einaudi 1977, p.86). La cosmogonia è “babilonogonia”, la città è il mondo. La
particolarità di Roma così come del Giappone è l’aver unito le prospettive universalistiche “assiali”, greca l’una,
cinese l’altra, con il senso del divino particolaristico
che s’invera solo in Roma e solo nello Yamato, quindi con una storia
particolare sacra. Qualcosa di simile
avviene anche in Israele perché la rivelazione mosaica è precedente all’epoca assiale dei profeti, la cui nuova spinta si è
unita a quella precedente, ma in modo differente che per Roma e per il
Giappone: Roma si espanse, il Giappone non fu mai conquistato prima del ’45,
mentre Israele mosaica passata per l’epoca assiale fu invece conquistato; la sua unione fra
universalismo “assiale” e particolarismo è profondamente chiusa e difensiva. In
Grecia, India, Cina, al contrario, i sostrati precedenti erano molto meno forti
che in Israele.
Come non vedere che l’epoca nostra presente è quella della crisi degli
universalismi “in sé”? L’interesse che suscitano spontaneamente l’antica
Roma ed il Giappone nasce dalla necessità che oggi si sente di unire, in modo particolare in relazione ai tempi, universalismo e particolarismo.
Ma se seguiremo i modelli del neopaganesimo o del tennoismo, avremo fallito,
perché sono risposte perdenti che non uniscono veramente universalismo e
particolarismo. Tale unione, d’altra parte, è l’unica che può dare una risposta
alla mera frammentazione generata dal successo della globalizzazione. Non si tratta di un mero problema di limiti cui attenersi, ma di un problema
di sostanza. Si tratta di vedere se
l’unione di universalismo e
particolarismo debba necessariamente degenerare
nell’aggressiva chiusura nel proprio
guscio del Giappone tennoista (parzialmente sussistente in modo nascosto nel Giappone d’oggidì) o nei
sogni del tutto irrealizzabili del
neopaganesimo e della “gloria di Roma” (della quale il Fascismo italiano è
stato una versione oscena e parodistica, offensiva verso la vera gloria
di Roma). A mio avviso, tali degenerazioni non
sono necessarie, perché nascono da forzature
ed incomprensioni che si sono risolte
in giganteschi autogol.
Un’ultima interessante
annotazione: il Tennô ha qualcosa del Rex
Sacrorum. Coma a Roma il ruolo
del Re-sacro si è ridotto, ma il sacro
stesso vi si è concentrato con un processo simile a quello avvenuto nella
figura imperiale romana. Il Tennô ha quindi teso ad “assorbire” il sacro
presente nel Buddismo, ed è qui che Tibet e Giappone si sono separati: nel
primo ha vinto la religione, nel secondo la dinastia (cfr. F. Maraini: Eminentemente comparabili: Giappone e Tibet nei secoli VII e VIII della
nostra era, AISTUGIA ATTI del VII Convegno (1983)). Il che a sua volta non
fa che confermare di nuovo il processo di concentrazione del sacro nel Tennô.
Se il Tennô è un Rex Sacrorum, il Tianzi cinese fu davvero Imperator
nel senso romano, cioè anche Pontifex
Maximus. Sovente il successo
continuato di un libro è segno di un bisogno profondo, cui l’autore è stato
capace di dar voce. E’ il caso della Yourcenar. “L’esser vissuta in un mondo in
disfacimento mi aveva fatto capire l’importanza del Princeps” (M. Yourcenar: Memorie di Adriano, “Taccuino di Appunti”, Einaudi 1988 (3° ed.),
p.286). E ancora: “A torto o a ragione, quasi sempre l’umanità ha concepito il
suo dio in termini di Provvidenza; le mie funzioni mi costringevano a essere,
per una parte del genere umano, questa Provvidenza incarnata. Più lo Stato si
sviluppa, serrando l’uomo nelle sue maglie fredde e rigorose, più la fiducia
umana aspira a collocare al polo estremo di quest’interminabile catena
l’immagine adorata d’un uomo” (ivi, pp.138-139). Come nella Cina del Celeste
Impero. Ma la Yourcenar ha dato voce ad un altro profondo nascosto bisogno dell’epoca nostra, un bisogno che non riesce a trovare la sua giusta
espressione. Ed è per questo che il libro della Yourcenar pure si segnale: il senso di un divino umano e nell’umano. Ed anche questo tratto è simile alla Cina del Celeste
Impero (non alla Cina moderna).
[49] Il periodo
dell’illusione del predominio della ragione, “l’era dell’individualismo e della
ragione” (Shri Aurobindo Ghose), ha cominciato a passare da molto tempo: il
1914 fa senz’altro da spartiacque, il predominio completo riducendosi a parte
della seconda metà del XIX sec.. Da allora ha preso inizio quella che lo stesso
Aurobindo chiamava “la curva infrarazionale del ciclo” (cfr. Aurobindo: Il Ciclo Umano, Arka 1985; da notare che il grosso del libro fu
scritto tra il 15 agosto 1916 e il 15 luglio 1918, fu poi rivisto con delle
aggiunte). Ma le cause profonde di tale “curva infrarazionale” sono state
piantate proprio nell’era “dell’individualismo e della ragione”. “Ogni cultura nasce da certe scelte e, nel
bene e nel male, si spinge sempre fino al limite” (P. Thuiller: La Grande Implosione. Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002,
Asterios 1997, p.11; a parte taluni punti che non condivido, questo libro va
comunque letto perché insieme rigoroso e brillante). E’ così. Le scelte sono
state operate nell’autunno del Medioevo e nella prima fase dei tempi moderni
dando la nascita d’una cultura “faustiana” che unisce il ruolo faustiano dell’apprendista
stregone con la forma del borghese come personalità modale della modernità. Questa liaison
dangereuse non sarebbe stata mai più messa
in discussione, ma si sarebbe sempre più estesa modificandosi a seconda
delle circostanze storiche. Il mito di una dea Ragione “oggettiva”, cioè il
progetto illuministico, poi radicalmente messo in discussione, si è
tuttavia strutturato in un sistema scienza-tecnica-economia di fatto non più
modificabile. Invece in Oriente il mercante non
è mai e poi mai stato la personalità modale. In Asia Orientale si nota che
l’aristocratico (non il sacerdote) è
la personalità modale, la piccola nobiltà (la gentry) in Cina, la nobiltà guerriera (samurai, bushi) in
Giappone.
[50] Perché
l’esistenza del superumano impedirebbe l’esistenza dell’umano? Perché
l’esistenza d’una scienza divina impedirebbe l’esistenza di quella umana? Il
credere il contrario è la modernità,
che sta tutta qui. Difatti, la
modernità è l’umano solo umano, un
reclamare l’autonomia dell’umano. Non
è dunque mero “realismo”: ci son trattati politici cinesi o indù realisti
quanto Machiavelli. La differenza è altrove.
Dal punto di vista strettamente
politico, per misurare la differenza tra l’antichità e la modernità basta
rifarsi a Hobbes quando afferma che: “La teoria secondo cui alcuni uomini sono
più degni di comandare ed alcuni più degni di servire […] è il fondamento della
scienza politica di Aristotele” (Strauss-Cropsey,
cit., p.148). Per la modernità non c’è un essere, non c’è natura propria, non c’è limite:
spinta all’illimitato, cioè a disperdersi.
[51] Questo
porterebbe a concludere a favore di una certa relativa maggior eccellenza
dell’Oriente nelle cose dello spirito, come voleva Guénon, senza però cadere
nell’illusione dell’Oriente “tutto pieno” (cfr. nota 30). Guénon è stato un
critico spietato della modernità, però non è mai stato gradito ai “difensori
dell’Occidente” e ai cattolici “tradizionalisti” e “modernisti”; tuttavia, fu
apprezzato da un André Breton ad esempio. I conti non tornano. Evola fece parte
del partito fascista, Guénon non fece mai parte di nulla. Che questo suo
“astrarsi” possa essere stato sgradito a molti è una cosa che non condivido, ma
che capisco. Però che gli si attribuisca l’essere “di destra”, cioè l’essere di
una parte che non ha mai seguito, deriva dall’errore di considerare chiunque
sia non-progressista “di destra”, mentre la destra storica non è “tradizionale” nel
senso di Guénon, perché rimane all’interno
della modernità. Il problema è dato da Evola, che cerca di unire Tradizione in senso spirituale con
nietzschianesimo e neopaganesimo. Tale orientamento, ed è significativo, è
stato ed è presente anche nell’intellighentzia
nipponica (cfr. Mazzei, cit.). Ma
c’è dell’altro: è il pregiudizio della sinistra storica di rappresentare ciò
che vi è di più “avanzato”: peccato che tutte
le grandi ristrutturazioni del sistema le abbia fatte la destra negli anni ’80!
Ed ecco la sinistra attuale senza progetto: l’essere “avanzati” gli è stato
rubato dalla destra storica, senza contare che il sistema stesso ha svuotato
di senso la dicotomia interna alla
modernità di destra/sinistra.
Per tornare a Guénon,
quest’autore si pone da un punto di vista molto diverso da quello moderno (di
“destra” così come di “sinistra”): il punto di vista della tradizione, cioè una “Conoscenza” ed un “influsso” d’origine non-umana che si manifesta nell’umano unendosi a quest’ultimo. Guénon pone il problema del Mandato (Celeste), e non a caso uso il termine cinese, perché
Guénon è stato profondamente influenzato
da quella forma tradizionale, lui stesso da giovane fu membro d’una società taoistica.
Si sottovaluta questo retroterra sinico nell’opera di Guénon, perché
Guénon è stato intelligente: ha rielaborato
in un linguaggio differente da quello
proprio della tradizione sinica taluni temi tipici
di quella tradizione. Ora: la sinistra ha ricevuto un preciso Mandato per poter
guidare il cosiddetto “progresso” (comunque si giudichi quest’ultimo)? No?
Allora tutto quel che afferma è zero; così si ragiona dal punto di vista
tradizionale. Perché? Perché la pretesa di guidare non viene dall’Alto, ma
dall’Io. La destra ha ricevuto un preciso Mandato per poter opporsi al
cosiddetto “progresso” (comunque lo si giudichi)? No? Ed allora siamo di nuovo
in presenza di uno zero, perché tale opporsi viene dell’Io, è cioè una cosa
umana, solo umana. Ed è precisamente
questo, ripetiamolo, ciò che il punto di vista tradizionale, non
“tradizionalista”, non può accettare. Il “tradizionalismo” è il rimanere legati
a taluni aspetti del mondo premoderno
però all’interno della modernità stessa;
questo punto è decisivo. Il tradizionalismo è dunque l’integralismo islamico,
il neopaganesimo, il tennoismo in tutte le sue forme, anche nascoste (e
sappiamo tutti come i Giapponesi siano maestri
proprio di queste forme “occulte”, mascherate). Il tradizionalismo non è ciò
che qui ho chiamato atteggiamento antimoderno, perché si riduce sempre a nazionalismo, prodotto tipico della modernità. Antimoderno è
sempre stato un atteggiamento di minoranze minime,
di autori outsiders, tutti diversi
fra loro, beninteso, uniti dal rifiuto,
ma non da ciò che professavano; ad esempio, Battaille quasi completamente,
l’Evola critico, non quello neopagano, in parte lo stesso Guénon (quello di Crisi del mondo moderno). La differenza fra Guénon e gli altri antimoderni è che
rimane coerentemente legato al punto
di vista tradizionale, senza cadere nel tradizionalismo neopagano alla Evola o
nel rifiuto autodistruttivo alla Battaille. Abbiamo però visto cosa davvero comporti il punto di vista tradizionale in senso puro, ed è ciò che Guénon sostiene: in
pratica sia destra che sinistra, sia tradizionalismo, tipico della destra
“estrema”, che rifiuto e culto della morte, tipico della sinistra “estrema” e
dell’anarchia, son dichiarati senza
Mandato. E’ una conseguenza d’una radicalità suprema che non può che spaventare.
Se Guénon ha ragione, tutto il mondo attuale dovrebbe
cambiare; la qual cosa è ovviamente impossibile.
A questo punto si comincia a comprendere perché
Guénon è uno degli autori più invisi,
e da più parti, di solito apprezzato invece dagli “indipendenti”… Il destino di
Guénon è stato allora una solitudine di pensiero quasi completa, pure nel mondo
islamico in cui si ritirò, dove non poteva essere ben accetto ai ligi seguaci
della Sharî’a e del Kalâm. Chi ha tentato di “usare” Guénon,
ha scoperto che si tratta d’un osso troppo duro.
Grecum est. Non legitur.
Essendo l’idea di tradizione
non accettata dalla modernità, che sostiene l’autonomia dell’umano, per comprendere veramente queste cose
occorre porsi oltre il punto di vista individuale: occorre fede, cioè una visione intuitiva
(in-tuere). Così la dottrina dei “Tre
Mondi” (corporeo, psichico, spirituale), praticamente propria, in forme sempre
cangianti, di tutte le tradizioni spirituali, o quella dell’allontanamento
ciclico dalla spiritualità delle Origini (dell’Oriente) van viste da tale angolazione intuitiva. E allora, l’esser convinti
non ha senso: si crede senza credere, ci si pone su d’un altro piano.
La filosofia, nel senso comune
della parola, è un’altra cosa, è ragionare sulle cose da un punto di vista
individuale, con esiti vari, buoni e cattivi, insomma, la filosofia è neutra, ma non neutrale. Il vero
problema è come l’individualità si connette a ciò che la supera e che ne è il
Principio. Ed ecco tutta una serie di gradazioni d’individualità, secondo che
siano più o meno “avvicinabili” al Principio. La gran parte degli individui
sono un fascio di forze vitali, con della mente, del sentimento-desiderio, con
una piccola goccia di Spirito (“l’alito misterioso”, il tama (gioiello interiore) dello Shinto).
Questa goccia è assolutamente minoritario, cosicché in ben pochi s’irraggia (e
c’è irraggiamento positivo e negativo). L’individuo è dunque in gran parte un
fascio di potenze non-divine, ognuna divina “in sé”, ma non è divina la forma
che le racchiude, tranne quella goccia. La pietra grezza non può trasformarsi
in pietra preziosa da sé, questo è un punto ben fermo: ma è dalla goccia che
inizia l’opera; porre in atto quella goccia è il “segreto dell’acciaio” cui si
allude nell’Ermetismo. Le forze vitali son coagulate attorno alla spinta alla
sopravvivenza autonoma, cioè
“isolata”, dell’individualità. E’ tale spinta che dev’esser vinta, è questa
forza “demonica”, ma non necessariamente “demoniaca”, che dev’essere
ri-orientata, deve ritrovare il suo Oriens-Origo.
Il problema è allora sempre quello del rapporto tra forze vitali e Spirito (che
non è la Mente, ma Ciò che la trascende posto in atto: la goccia divina). La mente ed il sentimento son più facili a
vincersi, ma le forze vitali sono un osso più duro ancora: esse vanno spezzate nella loro pretesa indipendenza ed autonomia dell’umano e poi
con-vertite; lo stesso problema si pone, in modo diverso, per le civiltà umane.
La massa è ancora un’altra
cosa, perché nasce dall’unione di ciò che è comune a moltissimi individui, che
è ciò che hanno di più basso; di per sé non è una forza cattiva, ma “demonica”
nel senso di discensiva, instabile,
non buona se non indirizzata e controllata. Vi è una formazione mentale nata
dalla massa, mente istintiva che ha sue tendenze manipolabili da parte di chi
ne ha le possibilità, mente che opera le sue discriminazioni. Si può
convincerla tramite la suggestione; una volta suggestionata, la mente di massa
può rimanere impressa per lungo tempo: cambia difficilmente. Il punto-chiave è
che tale mente non ha in sé i mezzi per verificare la giustezza di qualsiasi
suggestione che vi sia su impressa. E’ per questo che una mente istintiva d’una
intera civiltà può esser portata del tutto fuori strada, è per questo che il
pifferaio magico può spingere i topi al suicidio facendo loro credere di
salvarsi, è per questo che i profeti han sempre avuto vita difficile. Il fatto
è che si oppongono a tale mente. Ma i profeti veri son pochissimi, e del resto
certe cose emergono a livello di massa solo in momenti cruciali ed in fasi di
grossi pericoli, o quando è necessario che vi siano grossi cambiamenti.
[52] “Tutte le
religioni si sono affannate intorno a questo problema, con risultati assai
diversi […]. E’ il mezzo specifico della violenza legittima […] come tale […]
quello che determina la particolarità di ogni problema etico della politica” (Weber: Il lavoro…, cit., p.115). E ancora Weber parla delle “potenze
diaboliche che sono in gioco” (ivi, p.118) tanto più potenti quanto più non le si vede e si rimane chiusi in ciò che
chiama “etica della convinzione”, etica “assoluta”, che non si applica
all’agire. Dal nostro punto di vista, è chiusura nell’Io, rifiuto
dell’abbandono, virtù apparente. A mio avviso, non si può che far proprio il
punto di vista che Weber chiama “etica della responsabilità”, che nasce dalla
seguente domanda: cos’accade se ometto
di prendermi la necessaria responsabilità per quell’atto, qualunque siano le mie convinzioni? D’altra parte, questo è l’unico
modo per conciliare convinzioni
personali e costrizione all’azione. Credo
sia opportuno affermare chiaramente come chi scrive la pensa su questo punto,
allo scopo di evitare malintesi e di non ingenerare sospetti di fanatismo
assolutamente inesistente nella mente di chi scrive. Personalmente, niente
come il fanatismo mi è indigesto per carattere; gradisco sempre invece la
vastità di vedute, che non implica nessun contrasto con la chiarezza e la
coerenza dell’azione conseguente, là dove se ne veda la vera necessità.
[53] Le arti
marziali orientali, Budo, si sono
sviluppate dalle arti marziali pratiche, bujutsu,
intorno al XVI secolo, per diventare, sotto l’influsso dello Zen, insegnamento
e Via (Do, Tao) spirituale. Bisogna davvero aver vissuto qualcosa di questo
mondo per capirne il Senso, così come si deve aver visto qualcosa di più del
mondo corporeo per sapere cos’è la dottrina dei Tre Mondi. Ma sembra oggi che
una conoscenza reale, e non illusoria, di questo tipo sempre poco diffusa, sia
data davvero a pochissimi.
Nel Budo è fondamentale trascendere l’Io, ma è veramente molto difficile che questo accada. Forme, combattimento,
vittoria/sconfitta non devono più contare. “Ciò che la coscienza dell’Io
considera importante nella vita, è privo d’importanza nelle arti marziali. […]
Solo il superamento dell’Io forma lo spirito […]. Per poterlo ottenere, l’Io
deve recedere […]. Fondamentalmente questi metodi fanno appello allo stesso
potenziale interiore dal quale, nelle religioni, scaturiscono devozione e
confessione. […] Però dato che simili richieste all’interno delle arti marziali
si scontrano con la forte opposizione operata dal pensiero, la Via […] risulta
molto lunga. Quand’anche la psicologia delle arti marziali venga compresa
intellettivamente, è impossibile accettarle se non c’è fede. Se le esperienze
non sono mature nell’atteggiamento interiore, la ragione analitica interviene
ogni volta producendo, entro i suoi confini, una controreazione critica. […]
Alcuni allievi praticano tutta la vita senza riuscire a superare
quest’ostacolo. Non con la pretesa, ma con l’umiltà, bisogna andargli incontro”
(W. Lind: Budo, Mediterranee 1996, p.91). E’ un libro profondo quello di
Werner Lind, un libro di chi sa di cosa sta parlando, la qual cosa non accade
comunemente… La differenza con il cammino religioso, al quale il Budo pure si affianca e che segue, è che
il Budo è immerso nell’azione.
Inoltre, il Budo è in una situazione
svantaggiata, perché tratta dell’arte del vantaggio, cioè dell’arte di
predominare sugli altri, cosa che non può fare a meno di stimolare l’Io; perciò
nel Budo l’umiltà è molto più
difficile, ma tanto più necessaria.
“Solo nell’anima c’è il mezzo
per superare la paura. In una battaglia per la vita e la morte, in cui non
esistono sicurezze, aumenta la paura attraverso la presa di coscienza e
diminuiscono le possibilità di sopravvivenza. Lo stesso vale per la
considerazione intellettuale del futuro. […] La possibilità di considerare la
morte ‘razionalmente’ e quindi di reagire non influenzati dalla paura non
esiste. La morte dev’essere accettata come parte della vita attraverso un
esercizio di convinzione. Se ciò non accade, l’uomo rimane soggetto ad emozioni
incontrollabili ed incapace di agire al di fuori delle sicurezze fornitegli” (ivi,
p.89). Lo scopo è accettare la morte. “I Samurai sapevano che era impossibile
accettare la morte attraverso l’Io. Perciò si servivano del pensiero e si
appellavano all’intuito. Un uomo che provasse con la forza di volontà a
raccogliere l’acqua nella bocca, non ci riuscirebbe. Se egli immaginasse, però,
di mordere un limone, accadrebbe naturalmente. L’intuizione è più forte
dell’intelletto” (ibid.).
[54] Che poi anche
per me Roma abbia un suo vero valore, fuor di dubbio, ma senza stupida
esaltazione anticristiana, che non fa che rovesciare l’immagine caricaturale
della romanità costruita dalla Controriforma, la quale ha indebolito il
Cristianesimo, spingendolo nella direzione di un sempre più marcato sentimentalismo
religioso. Ben diversa era la visione
della romanità propria del Cattolicesimo medioevale; l’interesse per la
romanità, sia detto en passant, non
può essere che minore di quello per il Medioevo, di certo più vicino alla
modernità, eppur diverso su taluni punti essenziali. Giustamente Guénon
considerava il Medioevo uno sviluppo tipicamente ed unicamente occidentale,
additandolo più di Roma come
possibile lontano modello, non certo da imitare, ma da prendere come
spunto dal quale trarre ispirazione per l’oggi. Naturalmente, un’idea
siffatta non poteva che non essere ascoltata, in tal senso; quanto alla moda del Medioevo, essa c’è stata, ed è
stata sterile; questa moda ha suscitato meno resistenze sia perché davvero il
Medioevo è più vicino a noi, ma soprattutto perché il mito del Medioevo non è
stato usato dai fascismi tra le due guerre e, last but not least,
non può esser letto in chiave neopagana.
Ma chiudiamo l’excursus. “Quello che è in gioco, in
questa riproposizione d’ordine, oggettività, disciplina, di tutto ciò che
simboleggia con la forza d’un mito rinato il nome di Roma, non è […] un rifiuto
della dimensione della vita come àmbito di scorrimento del divenire; quanto la sua immissione in una dialettica serrata
con la certezza della forme e dell’istituzione. ‘Le forze vitali hanno
bisogno dei freni e non delle libertà – concludeva il Mœnius […] -. Altrimenti
la vita uccide se stessa; ogni esagerazione della vitalità diventa suicida. La
vita dev’essere sottomessa alla guida di una ragione ordinatrice; altrimenti
non produce altro che disordine e confusione’ [Mœnius,
Italienische Reise]” (Esposito, Categorie…, cit., p.40, sottol. mie). Nonostante non si possa
vedere nella Roma antica quel che non vi fu, tuttavia si deve riconoscere quel
che realmente fu. Davvero: “Roma
rappresentò la volontà umana che disciplina la mente delle emozioni e delle
sensazioni” (Aurobindo, cit., p.98).
Come però Esposito dimostra
seguendo Schmitt nelle pagine seguenti, il Cattolicesimo non si riduce a tale
forza della ragione ordinatrice, perché “la Chiesa di Roma può generare nuovo
diritto” (ivi, p.43). E’ questa capacità di ordinare senza forzare, capacità “bipolare” (Guardini), a distinguerla
dalla Roma antica, e ad avvicinarla al Celeste Impero, al cui livello, però, la
Chiesa Cattolica non è stata in grado di giungere. Ciò perché la mentalità di
fondo era diversa: il concetto di creazione immetteva una dualità che in Cina non c’era, perché lì vigeva l’ordine della polarità. Pertanto, ciò che Guardini
chiamava la “bipolarità” è risultata manchevole sin dall’inizio nel
Cattolicesimo. Dopo il secondo conflitto mondiale, la Chiesa avrebbe perso
anche questa capacità. Ne è stato prova il “democristianesimo”, segno preciso della fine del Cristianesimo. Ben lungi dall’integrare in una superiore
visione, articolata sia da una legge dall’alto che da una spinta dal basso che
viene accolta, il “democristianesimo” semplicemente ha lasciato mano libera
alle forze centrifughe e dissolventi particolarmente forti nell’Italia meridionale (luogo dove più d’ogni altro
in Italia, come in Europa i Balcani,
la lezione di Roma dovrebbe al contrario essere seguita). Democrazia e
Cattolicesimo alla Guardini non si
possono schiacciare l’una nell’altro. Senza contare che la visione propria del
democratismo e di buona parte del liberalismo, cioè la mera gestione
dell’esistente, la giustificazione dell’homo
democraticus “dogmaticamente certo della ‘naturale bontà’ dei propri
appetiti” (M. Cacciari:
“L’invenzione dell’individuo”, MICROMEGA (Almanacco di filosofia ’96, p.122), dissolve lo stato dall’interno: non c’è
più bisogno di rivoluzione…
Questo ci porterebbe a
discutere perché tale dissoluzione
almeno parziale dello stato non è avvenuta (per lo meno non ancora, ma non è da
escludersi) in Asia Orientale, cioè perché lì la tradizione “romana”, simile a
quella imperiale cinese e samurai giapponese, di “disciplina” ed “oggettività”
si è mantenuta, per quanto in forme
ibridate con la modernità occidentale. Senz’altro è a Singapore che si vede
questo al massimo grado, perché si tratta d’una città-stato e perché uno hakka (Li Kuan-yu [Lee Kwan-yew]) ha
potuto seguire il suo orientamento, influenzato dal Confucianesimo, senza
ostacoli. Non m’interessa se piaccia o non agli Occidentali moderni. Quel che
m’interessa è capire che cos’è che fa
la differenza in particolare; e qui parliamo di Singapore, città iper-moderna,
passata come il Giappone dal premoderno al post(-tardo)-moderno come il
Giappone, ma in molto meno tempo. Sarebbe tempo di scrivere, dopo una ricerca
orientata in tal senso, Lettere dalla
Città del Leone (Singapùr).
[55] La forza è
forza. Che l’Occidente sia stato storicamente più forte dell’Oriente non vuol
dire che, se l’Oriente fosse stato più forte, non avrebbe teso alla conquista
dell’Occidente: il caso dei Mongoli gengiskhanidi è chiaro. Il problema è lo
stesso di tutte le cose: il problema
non è la forza, ma l’uso che se ne fa. Uniformare il globo portati dall’idea
sedicente salvifica del predominio della ragione e dell’umano che si chiude a
tutto ciò che lo supera è di fatto perdere se stessi. La forza è stoccaggio di
qualcosa di non usato, che poi però sarà usata. La forza non è quindi eterna:
declina e finisce; quel che oggi sta succedendo all’Occidente, il quale non può
continuare come ora per molto tempo ancora. E allora il progetto illuministico,
che ha contribuito a generare un tale fiammeggiante nodo scorsoio, non è di
nessun aiuto nella presente situazione concreta. Ora si mostra la sua
impotenza. Ma, comunque vadano le cose, quel progetto c’è stato, ed è successo:
e ciò non può essere dimenticato, né cancellato come se non fosse mai stato.
[1]
“… noi crediamo che tutta l’epoca moderna
nel suo insieme rappresenti per il mondo un periodo di crisi”, R. Guénon, La Crisi del mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1972 (n’è passata d’acqua sotto i ponti!!), p. 18, corsivi in originale. Nell’edizione
online (di questo libro), è a p. 4: cf.
https://appoggiofilosofia.files.wordpress.com/2014/02/guc3a9non-crisi-del-mondo-moderno.pdf.
Si è letto bene: Guénon parla di “mondo”,
non parla del solo Occidente, il che
taglia corto con i tanti illusi sull’Oriente, che han preteso, a torto come a
ragione, di “seguire” Guénon, che apertamente sosteneva di non voler essere “seguito”,
ma lasciamo perdere … Su questi sognatori, davvero inguaribili, dell’ “Oriente
intemerato e puro” (che sta solo nei loro cervelli), cf.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/06/inguaribili-sognatori.html.
Se Guénon ha commesso degli errori di valutazione, è su questa falsariga che
occorre ritrovarli, non nell’analisi
del mondo moderno. Altra osservazione, davvero decisiva,
è quando Guénon sottolineava l’ etimologia
del termine – d’origine greca, come ben si sa – di “crisi”: la crisi
vuol dire “decisione”. In altre parole: entro
un determinato limite temporale, non noto
ai più, “‘Si’ deve” prendere una decisione, che è un altro termine che è
girato e rigirato su e per questo blog (in particolare nei Commenti). Tutta la
tragedia e tutta la tremenda impotenza del mondo moderno sta esattamente qui: per ben due o tre secoli, qui non
si è presa alcuna decisione. Negli ultimi decenni due o tre decenni, poi, si è
volutamente evitato di prender
qualsiasi decisione, per timore dell’irreparabile. Se da un lato il System ha
dato prova di grossa “resilienza” – un termine sin
troppo di moda, ma non necessariamente positivo: la resilienza
del negativo è una malattia cronica –, dall’altro questa è
stata l’uscita dalla crisi degli anni Settanta, crisi sistemica: il System è divenuto cibernetico, ha il pilota
automatico, pur avendo dei circuiti che “imparano” – vale a dire memorizzano –
dall’esperienza. In quel tempo, valeva il “I can feel the fear in the Western
world” (come cantava il gruppo Ultravox) e i “gangli decisionali sistemici”
decisero di “blindare” il System. Il
risultato è l’ oggi.
Volutamente
ho usato la vecchia edizione, non l’ultima,
in quanto l’Introduzione all’ultima – recente – edizione riveduta è viziata
dall’incomprensione e dal ben noto tentativo di “usare Guénon” per gli scopi
del momento, cioè la crisi della cosiddetta “immigrazione”. Come ho avuto modo
di dire, in qualche Commento a qualche post precedente, se è vero che Guénon
ammetteva “l’invasione degli orientali ‘occidentalizzati’” – così li chiamava –
tra le modalità di “scioglimento” della lunga, lunghissima, perenne “Crisi del mondo moderno” (= “il tramonta che non tramonta mai”),
tale “invasione” non era, per Guénon,
una cosa sbagliata. Anzi era buona, come si dimostra dal passo seguente, nell’ambito
delle “tre possibilità” di “uscita dalla modernità” riservate all’Occidente, di
cui la terza – la più favorevole – implicava un ritorno dell’Occidente alla sua
tradizione (in Crisi Guénon sosteneva
il Cattolicesimo come base concreta,
diversamente da Evola, che sognava il ritorno impossibile al mondo antico), e noi oggi sappiamo che ciò non sarà mai; la seconda era l’assimilazione
– con le buone o con le cattive, sia ben chiaro – dell’Occidente
da parte di una forma religiosa orientale che lo volesse fare (qui è chiaro che
Guénon pensasse all’Islam); e la prima
era il ritorno puro e semplice alla barbarie (quel che sta succedendo oggi, nella degenerescenza sociale diffusa occidentale), Guénon aggiungendo
che non era certo questo il primo caso nella storia e che molti popoli e
civiltà son semplicemente ritornati ad uno stato di barbarie, più o meno
leggera, più o meno fosca. Guénon,
allora, in relazione alla seconda
possibilità detta qui sopra, sosteneva dunque,: “Nel secondo caso, i
rappresentanti di altre civiltà, vale a dire i popoli orientali, per salvare il
mondo occidentale da tale irrimediabile decadimento [nella barbarie, intende], lo assimilano
di buon grado o con la forza, ammesso che la cosa sia possibile e che
l’Oriente vi consenta, nella sua totalità o in qualcuna delle sue parti
costitutive [Guénon pensava all’Europa latina].
Speriamo che nessuno sia così accecato dai
pregiudizi occidentali da non riconoscere che sarebbe preferibile questa
ipotesi alla precedente [il puro e semplice decadimento nella barbarie,
cioè; e qui si vede chiaramente che
alcuni leggono in Guénon quel che gli piace di vedere: Guénon era favorevole all’ “assimilazione”,
probabilmente islamica ed anche con le “maniere
forti”, dell’Occidente, favorevole:
leggano bene lor signori, per cui Guénon non potrà mai e poi mai esser spacciato
per un “difensore dell’Occidente” e neppure con un cantore della famosa “identità”
(occidentale, con protesi – dentale – acclusavi nel prezzo base); il problema è
che ciò non sta accadendo, perché il mondo islamico è un sottozero, e sta
succedendo la “pressione” degli “orientali occidentalizzati” sull’Occidente in decadenza irrimediabile, questo sta succedendo, il che non toglie
che, all’assimilazione da parte del “vero” Islam, Guénon era favorevole: non trasformiamolo in ciò che non era:
e, su questo, con Evola, vi era dissenso,
giusto per esser “filologicamente”
corretti]: in circostanze simili ci sarebbe senz’altro
un periodo transitorio di rivoluzioni etniche estremamente dolorose,
quali è difficile rappresentarsi, ma
il risultato finale sarebbe tale da compensare
i danni fatalmente causati da simile catastrofe
[Guénon ammetteva che trattasi di catastrofe!!]”, R. Guénon, Introduzione allo studio delle dottrine indù, Adelphi Edizioni, Milano
1989 (altro anno “fatidico”, il 9
novembre, anniversario del putsch di Monaco del 1923, data quindi puramente,
meramente “casuale”, “cadeva” il “muro” di Berlino …: iniziava la tristissima Europa a “trazione” (monca)
tedesca), p. 249, corsivi miei, miei osservazioni fra parentesi quadre. Quel
che sta oggi succedendo è che, data la debolezza
delle forme tradizionali orientali, per cui non sono in grado di “assimilare”
proprio niente, data la degenerescenza del mondo
islamico in particolare, l’Occidente
sta precipitando sempre più nella barbarie. Questo sta succedendo oggi. basta
girarsi attorno e se ne troveranno mille conferme. La cosa non vien vista
perché trattasi di barbarie “tecnologica”, in quanto il pregiudizio capitalista e borghese, tipico dell’Occidente moderno,
equivale la barbarie alla scarsezza di mezzi tecnici, quando al contrario la
barbarie è uno stato d’animo ed uno stato di degenerescenza dei rapporti
sociali, cosa che vediamo intorno a noi per soprammercato.
La logica di
Guénon – stringente, oltre che preveggente – all’epoca era questo: si accorse (in
ciò incredibilmente preveggente, perché si parla degli anni Quaranta del secolo
scorso!1) che quest’ “assimilazione orientale” – che lui vedeva bene, ricordiamocene – era impossibile, in quanto l’Oriente
si occidentalizzava. Di conseguenza – di conseguenza – l’Occidente andava verso
la barbarie, mentre il resto del mondo, Oriente
ivi compreso, andava verso la decadenza, ambedue i fenomeni essendo irrimediabili, secondo lui.
Davvero notevole.
RispondiEliminaSto osservando negli ultimi mesi, per via di una maturazione interiore, proprio questo processo di accettazione del mondo moderno. Gradualmente e senza che faccia nulla mi pare sempre più evidente che è un fatto lo stato del mondo in cui ci troviamo: e al contrario questo fa sorgere in me forza. D'altronde, quando si impara a osservarsi e ad accettare le bestie che sono in noi, quelle fuori di noi non fanno più poi così paura.
Oggi c'è molto vento, e mentre leggevo "E’ necessario un terzo atteggiamento e quarto gruppo, che cerchi una via, senza quindi appiattirsi sul presente, però accettando l’esserci stato della modernità, della fase moderna", la finestra socchiusa si è spalancata.
EliminaGrazie del tuo commento: interessante la “sincronicità” junghiana verificatasi – fermo restando i **grossi errori** di Jung sull’alchimia, certe che disse pur tuttavia son giuste – oppure il “signum”, per dirla alla “nostrana” … “nomen omen” o “a suon di campana” dicono nei paesi, quando una frase viene “signata” da un “eventum” che la “approva”, per così dire …
Una sola osservazione: queste son frasi del lontano **1999**, diciannove anni fa: qui si è salvato materiale di vent’anni fa, à la Dumas di “Vent’anni dopo” – 1997, 1998 ed ora 1999 –, materiale “riemerso” in seguito alla fase attuale della “Crisi del mondo moderno” … Ed è così: l’ **accettazione** apre la porta del “superamento”, quello vero, quello reale, quello che “va oltre”, **non** quello che, **pretendendo di superare**, in realtà rimane **ben dentro** a ciò che, davvero, **pretende** di criticare in modo “definitivo”, e qui non è un mistero che stia pensando ad Evola & C. l’avrò detto decine di volte: **non esiste** una via “moderna” per uscire dal vicolo cieco della modernità. Si va oltre quest’ultima perché si opera un “taglio”, smettendo di voler salvare la situazione “all’interno” del quadro costruito dalla modernità stessa, per quanto la si critichi = la critica **non sufficit** …
EliminaQuesto **non significa** che “accettare” voglia dire “dare il proprio consenso”, anzi: è l’opposto. Nota come quasi tutti quelli che, in apparenza, non accettano, poi, spesse volte, divengano i “cani da guardia” più **fedeli** del System: ciò significa che il dissenso era solo individuale, non fatto per ragioni “valoriali” o sistemiche.
Dunque accettare **senza** per questo dare il proprio consenso: ecco la via.
RispondiEliminaIl “segreto” – ma di Pulcinella, è cosa nota, sebbene molti non vogliono vederlo (per questo son “tradizionalisti”) – è che la “modernità” nasce da una frattura **interna** al “mondo della tradizione”, non è un alieno.
Per questo la situazione è così difficoltosa: la cosa è “irradiata” nel paziente, e, per poter curare la malattia, dovresti uccidere il paziente …
RispondiEliminaTornando a noi, ora rimane solo che il System s’inceppi, siamo rimessi all’inerzia sistemica, che, forse, era il peggior destino fra tutti quelli possibili
esatto **deve** - deve - esaurirsi, è un Destino – molto ma molto snervante – ma proprio perché agisce un fattore solo
Fermo restando che rimane solo l’inerzia sistemica, tuttavia due segni interessanti:
1) allarme al massimo livello negli Usa per i cyber attacchi, allerta come prima dell’11 settembre, e non lo dico io, lo dicono funzionari di alto livello;
2) un iceberg molto grosso si è incagliato vicino ad un villaggio di Groenlandia: così grosso non si era mai visto né mai prima ciò era successo.
Assolutamente verissimo, guarda ch qui stan bloccando tutto, ma proprio tutto, anche a livello di quel che rimane della “tradizione”, *non* parlo dei “tradizionalisti” fasulli, di quelli ce n’è a iosa.
Una roba simile *non* è un caso … Tutto è, ormai, sciolto, certo di là e di qua, la dissolutio”, it’s dissolution baby, e non è un ospite di buona compagnia …
E quello è il brutto, non c’è modo di scaricar su chi face lo malo lo male che face
E sì, vi è questa possibilità di inceppamento per causa dell’inerzia systemica, Trump e Putin legati da un patto contro il System della Grande Prostituta – dovuto a società “neotemplari” cui evidentemente son vicini indirettamente Trump e più direttamente Putin –, quelli che odiano tal system … Come si legge nell’ “Apocalisse” di Giovanni … Per esempio, se le tensioni internazionali sfociassero nel blocco dello Stretto di Hormuz, il pericolo di ritrovarsi in una situazione facsimile agli anni Settanta, ma **senza** più le possibilità di “aggiustamento” di quegli anni lì, sarebbe un fatto, un evento “sistemico” – da quegli anni ad oggi: tutto un iter compiuto – da System ….
Serie di link:
RispondiEliminahttps://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/a/a5/La_chute_de_Babylone.jpg/1024px-La_chute_de_Babylone.jpg
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/4b/La_B%C3%AAte_de_la_Mer.jpg/800px-La_B%C3%AAte_de_la_Mer.jpg
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/a/ab/La_nouvelle_J%C3%A9rusalem.jpg/1024px-La_nouvelle_J%C3%A9rusalem.jpg
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/4/4a/Tapisserie_de_l%27apocalypse.jpg/1024px-Tapisserie_de_l%27apocalypse.jpg
Da https://it.wikipedia.org/wiki/Arazzo_dell'Apocalisse
RispondiEliminaAmo citare un proverbio spagnolo: “parlare di tori non è come stare nell'arena” – e sì, non siamo all’emersione – tu puoi combattere un male quando vien fuori, non prima: il che è un problema, grosso.
Ma ci siam vicini a tale detta emersione.
EliminaDi che cos’han discusso Trump e Putin: della Siria. A parte le divergenze sull’Ucraina, sulla Siria c’è accordo: Trump vuol lasciare, vuole che l’ex “Amerika” lasci quella situazione, allora, si sguarnita l’ultima porta. Prima Saddam Hussein, poi Gheddafi, infine lì: in ogni caso – si osservi bene – l’ “Occidente” (o ciò che ne rimane, il **fantasma** dell’Occidente, che qualche illuso senza speranza vuol “difendere”) ha **perso**, ha bruciato la linea delle “sette torri del diavolo”, quell’immaginaria linea sta per crollare del tutto.
Come s’è detto altrove, la torre centrale è quella relativa alla zona fra Siria ed Iraq.
quell'immaginaria linea non esiste più, il fine è stato raggiunto; il "niger" ha raggiunto l'europa, solo in italia negli ultimi anni sono giunti 600.000/800.000 clandestini dall'africa subsahariana ( il niger di guenoniana memoria), con tutto ciò che ne consegue ... la cronaca ci potrebbe dare qualche spunto...( la morte di pamela , le varie violenze , etc) ma questo è solo inizio. Altri "esperimenti sociali" sono stati fatti nel passato ( leggasi la "stanzialità" dei nomadi -rom, sinti, etc etc) etc etc.. vanno letti con arguzia .
EliminaSalute e Saluti
Grazie del commento, sui numero ci sarebbe da obiettare, ma che la “linea non esiste più”, **quella** linea, è chiaro … non è questione di “quantità”, ma d’ “influenze”, per dirla, stavolta, con *+ambedue** i G. …
EliminaAltrettanto Saluti et Salute (la primma cosa, che latita, con tutti questi veleni che ci propinano, ma che difenderemo con i denti)
Ieri sera avevo scritto due righe di risposta ma non sono riuscito a postarle, il sistema mi ha disconesso( e stamani ho compreso il perchè , vedasi l'ulteriore post dell'autore in riferimento a questa nota).
EliminaTuttavia vorrei chiarire il perchè ho citato delle quantità; se ho indicato 600/800 mila ( essendo stime possono essere errate ,ma questo poco importa possono anche essere soltanto 100.000) esiste cmq un numero minimo che deve fare da substrato alle influenze , e nel post di stamani è spiegato molto meglio di quanto potrei fare io.
Gli altri riferimenti agli esperimenti “sociali”, uno sicuramente esplicito , uno meno , volevano rimarcare lo stesso concetto , l’aggregazione di un gruppo(ì) etnico(ì)( gruppi etnici che sono i portatori di queste influenze , a volte in maniera passiva altre in maniera più che attiva) in determinate località crea soltanto disequilibrio quando dice bene , quando dice male ….lo stiamo vivendo da circa 70 anni .
Non mi dilungo più anche perché il tema è alquanto ampio e le mie proprietà di linguaggio non adeguate alla trattazione di queste tematiche .
Prendiamoli come spunti di riflessione
Riguardo alla salute( fisica psichica intellettuale) , è una lotta che implica la totalità delle nostre forze , e non è questione di cavalacare tigri o micini , di mani destre o sinistre ; di coscienza o incoscienza , è qualcosa che ci coinvolge come individui e come collettività contro il Nemico , ma questo sfugge ai più
Sono giuste considerazioni sulla salute, che non posso che condividere.
EliminaSui numeri, ci siamo: quel che conta è la famosa **massa critica**; e sui luoghi, pure: certe zone sono state alterate in maniera specifica e **voluta**, ma il discorso sarebbe lungo, qui.
Vi è una "*strutturazione sottile (e poi spirituale)** che costituisce (sarebbe meglio dire: **costituiva**) come una ossatura del nostro mondo.
Oggi essa è alterata. Le **linee del Drago** sono state deviate, altrove **divelte**proprio. Il che spiega tante cose apparentemente “strane” del “nostro” mondo.
Grazie degli spunti di riflessione, che sarebbe bene fossero un poco più diffusi di quel che non siano attualmente.
E tra l’altro, la crisi turca – prevista dall’analista Tim Lee nel **2011** e **2013** – potrebbe influenzare proprio la questione dei migranti …
EliminaTra l’altro, sulla questione turca, cf.
Eliminahttp://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/08/gia-pasolini-un-giorno-di-san-lorenzo.html
EliminaE riguardo al “Drago” come “symbolos” del flusso delle forze sottili, cf.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2013/12/gli-imperi-nascono-gli-imperi-muoiono.html,
il passo che inizia così: “Secondo la dottrina del feng-shui, la Terra …”, è significativo …
https://www.ilmessaggero.it/abruzzo/migranti_terremoto_colpa_spiriti_18_agosto_2018-3919560.html
RispondiEliminaGrazie interessante, segno della “sensibilità” ad influssi “psychici” legati significativamente alla Terra, come molti africani, terra di magismo di livello no certo elevato … sappiamo che c’è di più, ma ricordo l’antropologa Mireille Rostaing Casini che parlava delle “donne nere”, latrici di una “pericolosa magia” fra i Tuareg …
Elimina
EliminaPS. In un post precedente, in nota, ho messo un riferimento ad un vecchio libro dell’autrice qui sopra citata, nel precedente mio commento.
EliminaAltra osservazione: la sensibilità verso le “correnti sottili” è sensibilità verso il “Drago” che le simbolizza. Ebbene, queste correnti sono state tutte “sovvertite”, letteralmente, dalle linee diritte supportate dall’elettromagnetismo, poi quest’ultimo si è diffuso sempre di più, e, per cui chi ha un minimo di sensibilità al “Drago”, questa è una jattura notevole: una piena salute non ci sta mai …
Per la precisione, il libro cui accenno nel commento qui sopra è nella nota 4 al post:
Eliminahttps://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/08/due-linee.html
Poi tra l’altro, se si vuol veder davvero l’influsso di queste forze “sottili”dissolventi, lo si può ben vedere in queste ricorrenti – e sempre più forti – ondate di delitti senza senso, d’impazzimenti subitanei e sena ragione apparente. Anche tutto ciò a qualcosa deve pur corrispondere, ad una forza, “sottile” ovviamente.; ed una tale forza deve pur avere un’origine da qualche parte.
RispondiEliminaTrattasi come d’una sorta di “contagio”, che nasce da “semplici complessi”, anche molto complessi da decrittare, da sbrogliare.
Un qualche indizio lo si può ricavare da qui: cf.
https://associazione-federicoii.blogspot.com/2018/08/semplici-complessi-nientaltro-che-dei.html