Com’è
noto, Federico II di Svevia (Santo Stefano del 1194 – 1250) aveva dato in
moglie sua figlia al conte di Caserta, che, quindi, visse una fase di
splendore, testimoniata dal Torrione detto, appunto, “federiciano”.
Caserta,
detta oggi “vecchia”, in effetti Caserta tout
court, visse allora il suo momento di massimo splendore, sebbene la città
medioevale fosse di età ben precedente.
I
segni del passaggio di Federico II di Svevia a Caserta non furono, però,
soltanto architettonici, ma, senza dubbio, interessarono un altro aspetto, meno
notato di solito: la falconeria, tant’è che il Torrione federiciano spesso vien
detto “Torre dei falchi”. Allora, sia il clima che l’aspetto del territorio
tutto avevan un carattere ben differente da quelli odierni.
Come
prima cosa, ciò che si è convenuto chiamare “impatto antropico” era largamente
minore rispetto ad oggi. Si sa, da documenti archiviali, che, sin tutto il XVII
secolo lepri e cinghiali arrivavano fin quasi dentro la città, una situazione
semplicemente inconcepibile oggi.
Quanto
ai falchetti, fino alla Seconda Guerra Mondiale erano frequentissimi, mentre
oggi capita che qualcuno, coraggioso, si propenda sino alla pianura,
proveniente dall’interno, dall’altro lato dei Tifatini.
Ora,
è altamente probabile che il conte di Caserta, Riccardo Sanseverino di Lauro,
assieme all’Imperatore del Sacro Romano Impero Germanico, si dessero ad
importanti cacce con l’ausilio del falco.
Tale
pratica, che si è conservata sino ai nostri giorni, specie in Arabia ma pure in
Occidente, è, in effetti, di origine squisitamente orientale, e Federico non
mancò di coltivarne la pratica discorrendo con i monarchi islamici, in
particolare con al-Kâmil.
Federico
era così tanto convinto dell’importanza di questa pratica da scriverne il
trattato De arte venandi cum avibus,
“Dell’arte di cacciare con gli
uccelli (cioè i falchi)”.
A
parte la sapienza e l’esperienza vere che infuse in quel ponderoso scritto,
ripubblicato non molto tempo fa anche in italiano, il fatto è che, per Federico
II, la falconeria non era soltanto una pratica ludica, né un modo per tenersi
in esercizio fisico oppure un atto “sentimentale”, cioè fatto per richiamarsi
alle usanze degli avi germanici. Neppure si trattava d’imitare le usanze degli
opulenti monarchi orientali.
No,
per lui era qualcos’altro, qualcosa di molto più profondo. Si trattava
d’insegnare a degli uccelli rapaci a cacciare ma non a mangiare la preda, cosa
sommamente difficile, si trattava del dominio della mente sulla natura, ma seguendo la natura, non forzandola.
Si
trattava non di negare, quanto piuttosto d’indirizzare, in una diversa via, gli
istinti naturali del falco. In tal senso, per Federico, la falconeria era una
scuola per i governanti. Un buon governante doveva essere come il falconiere:
paziente, duttile, tuttavia forte, capace di reindirizzare gli istinti, le
pulsioni dei governati. Essa, pertanto, da mera pratica, diveniva un’arte vera
e propria, che impone da un lato disciplina in chi la esercita, e, dall’altro, porta
dei frutti che vanno ben oltre gli effetti immediati. Il “buon falconiere”,
secondo l’Imperatore svevo, doveva riunire in se stesso grande padronanza di
sé, solida intelligenza, buona memoria, coraggio e tenacia, in mancanza delle
quali doti le sue cognizioni pratiche sarebbero state senza vita.
Per
lo Svevo “’mperadore” tutte queste doti
erano altresì necessarie per il buon governante. Per questo, per Federico,
la falconeria era così importante, ed andava ben oltre lo svago oppure la mera
pratica “artigianale”.
Mi
si lasci, dunque, terminar con delle parole, tratte dal De arte venandi cum avibus, che, in loro stesse, racchiudono tutta la filosofia di Federigo: “In
questo trattato di falconeria è Nostra intenzione mostrare le cose che sono,
come sono, e presentarle come un’arte precisa”.
Andrea A. Ianniello
(2005)
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