Londra sale perché
comprano oro, la principale piazza mondiale, comprano “commodities”. Ma
lasciano la sterlina, i beni immobili, le banche sotto pressione.
Comprano titoli di
stato della Germania e, soprattutto, degli Usa.
E perché attaccano le
banche italiane ... perché più deboli, sennò si dovrebbero attaccare la Deutsche
Bank ed altre che hanno i derivati.
Molto semplice, ma non
di buon auspicio, direi ...
Si continuerà con la “trappola
di liquidità” (Triffin), non credo vi siano altre scelte possibili, al momento.
Persino i neoliberisti più ideologizzati ed ottusi devono “far buon viso a
cattivo gioco” ed accettare un intervento statale, in forma diretta e/o mista
(un Fondo che compri le azioni ad un prezzo non di mercato e lo stato mi mette
la differenza, pur se in prima battuta i capitali siano privati, insomma come
il capitalismo è sempre funzionato, same
as it ever was, cantavano i Talking Heads [1]).
Né si dica che “non si
sapeva”, gli studi che sostengono che uno sviluppo della finanza diventa
distruttivo, se va oltre un “certo” limite, son iniziati già da Rosa Luxemburg, e sviluppatim
poi, da Lyndon LaRouche, della “E.I.R.”,
personaggio molto “particolare”, - o “borderline”, come suol dirsi oggi - tra i
non molti ad approfondire L’Accumulazione del capitale, che fu,
invece, moto criticato dall’ortodossia “marxista”. Sia detto per inciso, oggi
tutti sanno che l’ortodossia “marxista” è stata fallace, ma non vi è altrettanto
forte la sensibilità rispetto ai disastri dell’ortodossia “liberista”. Si
biasima, e giustamente, il “Gran
Balzo in avanti” e simili cose basate su teoria fisse, ma non si vedono i
disastri compiuti nel mondo intero, e non in singole nazioni, da un’analoga “fissa
e fissante” ortodossia che, tra l’altro, nella pratica non si è mai realizzata
nei termini dei suoi custodi e sostenitori. La cosa era tanto più scandalosa,
nel “Grande Balzo in avanti” - che fu, davvero un grosso balzo, ma all’ indietro … - quanto più Mao Zedong
sfoggiava gran buon senso nei suoi scritti (certo che “il potere corrompe e il
potere assoluto corrompe assolutamente”, come suol dirsi). Non rispettava nella
pratica quel che predicava. Allo stesso modo, però, gli sfoggi attuali -
speculari - non vengono rilevati come tali e smascherati. Il che ci fa comprendere
come si sia una società succube di un “ideologismo”, cioè di un’ideologia che
ha perso il senso della realtà, che ha smarrito il senso della differenza tra
quadri teorici, che son sempre - e solo - “quadri di riferimento” che non si
realizzeranno mai pienamente nella realtà, e la realtà concreta, che è
dinamica, e noi dobbiamo adattarci ad essa dinamicamente (cosa, giova ripeterlo,
che Mao predicava ma si guardava bene dal fare, o, per meglio dire, faceva in
campo politico ma non in quello
economico, dov’era invece rigido ed ideologico).
Nel finale di partita,
nel gioco degli scacchi, 1) la strategia supera la tattica; 2) le
mosse che hai a disposizione si riducono in modo esponenziale, sei sempre
più “necessitato” [2].
NB.
In uno scritto del 1991, e cioè appena
prima del 1992 (ma vi era già stata la crisi degli Anni ’70, ricordiamocene) - data
che segna l’inizio di una crisi non ancora conclusa, in realtà - e parando dell’economia
italiana, della crisi del Mediterraneo, che, in effetti, va spostata verso la
metà del XVII secolo (in ciò concordi sia Wallerstein, creatore dell’idea di “economia-mondo”
nata a seguito delle “grandi ‘scoperte’ geografiche” cosiddette, sia Braudel,
che diede forma allo stesso concetto ma solo in ambito mediterraneo allo scopo
di dimostrare che non vi era un legame meccanico tra scoperta delle rotte
atlantiche ed extra-europee e declino economico del Mediterraneo, che avviene,
appunto, ben dopo quella scoperta), si legge: “Ma l’anacronismo più grave
sarebbe sicuramente quello di voler imporre a ogni costo alle manifatture dell’epoca
[secc. xiv-xvii] la responsabilità
e il ruolo di fonte principale dei profitti e dell’accumulazione di capitali. Ciò
può forse valere per l’industria tra il xix
e il xx secolo, senza peraltro che essa abbia mai avuto
questa funzione in forma esclusiva; del resto, la crisi sopravvenuta all’inizio
degli anni ’70 ci ha ricordato, restituendo
al captale finanziario una funzione dominante, che si trattava di una
situazione fragile e forse temporanea” [3].
Si mediti sulle parole “restituendo al capitale finanziario una
funzione dominante”, e a seguito
della “crisi sopravvenuta all’inizio degli anni ’70”.
Pertanto si possono sapere
tante cose, che la “trappola di liquidità” è disastrosa, che la finanza oltre
un certo punto si “mangia” l’economia detta “reale”, che i debiti pubblici - e
ormai anche privati!! - non son
onorabili né ora né mai, ma il punto vero è che non possono fare altrimenti, non
possono fare diversamente, le classi dominanti il “sistema-mondo” dell’ “economia-globale”,
non possono che seguire questo cammino,
una volta che la “finanziarizzazione” dell’economia sia divenuta la cosa
dominate, anzi, assolutamente dominante in quest’ultimo,
terribile Ventennio.
Di più: è vero che “si
trattava di una situazione fragile e
forse temporanea”, e, dunque, voler
tornare a quella situazione sarebbe stato impossibile, secondo Baudrillard; non
solo questo, ma chi, oggi, vuol
tornare a quella situazione dimostra di non aver compreso la natura
temporanea di quella situazione, dovuta sostanzialmente a due fattori: 1) la Seconda Guerra Mondiale (ed anche
la Prima, ma molto meno), come fattore contingente;
2) il “pericolo” del “comunismo” (e,
prima, dei “fascismi”, ma in modo minore) che imponeva - imponeva letteralmente - la partecipazione di vasti strati della
classi medie ai “benefici” della produzione, che, a sua volta, imponeva di far
comprare le merci, sennò si sarebbe caduti in un analogo del ’29 (come oggi, perché
questo è, solo dovuto ad un eccesso di “finanziarizzazione” piuttosto che ad un
difetto), ergo imponeva di dar soldi
alle classi medie.
Una volta che il “comunismo”,
per suo difetto interno, è sparito
non è forse vero che le classi medie si son viste sempre più ridurre e di
numero e di “potere d’acquisto”?
E non è un fatto “strutturale”?
Non era più necessario,
e, dunque, con logica assolutamente rigorosa,
pian piano, passo dopo passo, si è ritornati al XIX secolo in forma diversa,
perché è vero
quel che qualcuno ha notato, e cioè che pare che il XXI secolo sia piuttosto la
permutazione del XIX secolo che l’effettivo superamento del XX° …
Dunque - detto molto semplicemente
- tornare a prima non è possibile, perché quella precedente fu fase temporanea
ed anche fragile, perché “strumentale”,
e il ritorno alla centralità della finanza non fu altro se non il ritorno alla natura profonda del sistema
capitalistico; quel che andrebbe fatto, invece, sarebbe comprendere la logica fondante queste cose.
Il resto è mera chiacchiera, e flatus vocis …
NOTE
[1] “Talking Heads - Once In A Lifetime (Full Length Version) (1980/ 2013)
(HD)”, https://www.youtube.com/watch?v=98AJUj-qxHI)..
[1] Cfr. T. Burckhardt, “Il simbolismo del gioco
degli scacchi”, in Id., La maschera
sacra, SE Studio Editoriale, Milano 1988, pp. 23-32.
[3] M. Aymard, La fragilità di un’economia avazata, in Storia dell’economia italiana,
vol. II L’età moderna: verso la crisi, Einaudi editore, Torino 1991, p. 34,
corsivi miei. Interessante il discorso della “rifeudalizzazione” del XVII
secolo, che segnò la grande differenza tra Nord Italia e Sud Italia, non nel senso che questo fenomeno non
avvenisse nel Nord e tutto il Sud, invece, vi sottostò, ma nel Nord avvenne e
fu secondario rispetto ad altri fenomeni, speculare nel Sud. Anche in Est Europa
si ebbe un fenomeno analogo, seppure con “modalità”, ovviamente, differenti (né poteva esser diversamente). Insomma, si
ponevano le basi di quelle “fratture” che permangono praticamente intatte nell’
“Europucola” di oggi, che sega, così, il suo totale fallimento nel portare avanti un’effettiva “Unione” e cioè
un qualcosa che mescoli e compensi le differenze, in luogo di accrescerle o,
almeno, di statuirle come dati quasi assoluti ed immodificabili, davvero il peggio
che potesse mai accadere.
@i
Approfondimento
della presente nota n.5, qui sopra.
“Tutte le cifre di cui
disponiamo per le più grandi aziende italiane alla fine del Medioevo, come
quelle di Datini e dei Medici, suggeriscono che esse hanno sempre tratto dalle
attività manifatturiere una percentuale assai ridotta dei loro guadagni: in
questi due casi precisi si va, nell’arco di alcuni decenni, dal 5 al 7 per
cento. Il che viene a confermare l’idea braudeliana di un’industria che resta
di fatto, fino al xviii secolo, solo seconda
per importanza nella storia del capitalismo, anche se non in quella
della produzione, dell’economia e della vita degli uomini. E ciò anche nella
Venezia del xv secolo,
‘probabilmente il primo centro industriale d’Europa’ a questa data” (ibidem,
corsivi miei). E come guadagnavano allora … Per mezzo dell’attività bancaria,
che, alla fine del Medioevo divenne centrale (cui erano legate per relazione di
parentela, per esempio nel caso dei Medici, che erano banchieri), e la rendita
fondiaria derivante dalla produzione agricola.
Su Venezia. “Braudel è
dunque in grado di recuperare le osservazioni di Marx sugli investimenti di
capitali veneziani ad Amsterdam nel xvii
secolo, senza dimenticare il ruolo conservato da Genova, ancora nel secolo
seguente, sulle piazze finanziarie internazionali. La facile opposizione tra
un’agricoltura maggioritaria e un’economia urbana fragile che controlla
soltanto una piccola parte della produzione e del consumo ne risulta di
conseguenza relativizzata almeno per Braudel, il capitalismo non rappresenta
che un livello superiore, una soprastruttura
che coesiste con l’ economia di mercato senza mai confondersi con essa. Infine, lo
scarto tra Nord e Sud non è
riducibile a uno scarto tra una situazione avanzata e una di ritardo, esso è
piuttosto il risultato di una prima organizzazione
gerarchizzata dello spazio, che ha permesso ai mercanti e agli uomini
d’affari del Nord di trasformare i regni del Sud in produttori di materie prime
per l’esportazione, in importatori di prodotti manifatturieri e in utilizzatori
di servizi commerciali e finanziari” (ivi, p. 15, corsivi miei).
Il sistema-mondo si
basa sulla gerarchizzazione tra centro
e periferie, come sostenuto da
Wallerstein, peraltro giustamente. Altamente significativo, e conferma della
crisi esiziale del sistema, che la
tendenza è oggi dalle periferie al centro: ovvero, il centro è debole. E si vede dalle grandi città,
alle nazioni e persino nelle piccole città. Non sempre la periferia ce la fa,
talvolta il centro rimane residualmente forte - ma proprio per
molto poco -, ma la tendenza all’indebolimento del centro è costante,
dominante, diciamo pure irreversibile.
“Per la struttura dei loro scambi con
l’esterno e l’assenza di attività manifatturiera, per la brutalità degli scarti
sociali nelle zone latifondiste tra un pugno di grandi proprietari e una massa
di contadini senza, per il debole sviluppo e l’autonomia ancora più debole
delle ‘borghesie’ locali, per il posto occupato da mercanti e uomini d’affari
provenienti dai centri dominanti dell’economia mediterranea, per la mediocrità
delle infrastrutture (tutte rivolte ai
bisogni dell’esportazione: così i porti, le mulattiere che permettevano di
raggiungerle o le fosse dei ‘caricatori’ in cui si riesce a conservare il grano
per anni), le economie del Meridione
prefigurano per moti versi le economie coloniali del xix e del xx
secolo. Ma questi tratti coesistono
con altri, infinitamente più moderni,
come il grado assai elevato di commercializzazione della produzione agricola, la pratica generale
dell’affitto delle terre, l’eliminazione delle corvées [corsivo in originale] e la generalizzazione del lavoro salariato […]. La debolezza del Sud sta
per l’appunto nel carattere estremamente
precario di una tale ‘modernità’ [che però c’è nota mia], che si presenta
di fatto come la contropartita dell’inserimento in un’economia di scambi a
lunga distanza, nella quale le grandi
città meridionali hanno assunto una loro posizione traendone anche vantaggi - ora [XVI-XVII secc.] come in futuro -, ma senza mai mostrarsi capaci di controllarla [e questo è decisivo,
nota mia], o di animarla autonomamente,
sostituendosi ai veri centri di animazione e d decisione, che restano situati altrove. Ne segue una
serie di contraddizioni che i secoli
dell’età moderna riveleranno e nel contempo esaspereranno, contraddizioni che rimandano tutte a una constatazione principale: malgrado il
loro alto grado di centralizzazione politica e amministrativa, malgrado gli
scambi strettissimi tra zone dalle possibilità complementari, né il regno di
Napoli né la Sicilia - a differenza di ciò che si è avuto modo di suggerire a
proposito di Lombardia, Toscana e Veneto - costituiscono, né riusciranno a costituire, delle ‘regioni economiche’,
capaci di gestire in proprio il loro
sviluppo” (ivi, pp. 49-50, corsivi miei). Insomma, Napoli e Palermo (si
potrebbe aggiungere, di seguito, anche Bari), le grosse città del Sud, son
centri commerciali che traggono profitto dai commerci, ma ciò non significa che
siano stati dei centri propulsori dell’economia-mondo. Questo detto a favore de
vari “neoborbonici” e sognatori vari. Certo, è vero che con Carlo di Borbone le
cose cambiarono, ma questo rientra in un altro capitolo, il cosiddetto
“dispotismo illuminato” che faceva sì che intervenisse lo stato nell’economia. Ma si sa che quel tentativo poi fu bloccato,
da cause esterne - come sostengono i sognatori appena ricordati - e da cause interne, come da molti dimenticato, e
dove le due cause si unirono nel secolo XIX.
Il paragone tra
l’economia del Sud Italia e il Sud del mondo fa comprendere come qui siamo in
presenza di fatti sostanziali, di
modi strutturali di funzionamento sistemico, basato sulla differenza e
gerarchizzazione tra “il” centro e “le” periferie.
La crisi sistemica è
stata acuita in modo decisivo dalla crisi delle classi medie dei paesi del Sud,
che si son dimostrate decisive per
la stabilità sistemica (a tal proposito, cfr. T. K. Hopkins - I. Wallerstein,
L’era della transizione. Le traiettorie
del sistema-mondo 1945-2015, Asterios Editore, Trieste 1997, pp. 283-284, dove, tra l’altro, si fa esplicita menzione
dell’Italia e della sua crisi negli anni Novanta), ne abbiamo avuto come
risultati le cosiddette “primavere arabe” e poi l’ISIS/ISIL/DAESH. Sul fatto
che Wallerstein et alia prevedessero
- nel 1 9 9 7 !! - la fine dell’intero sistema-mondo nato dopo il
1500, più o meno, mi son già espresso, e rimando a post precedenti - che, tra
l’altro, parlano del “come funziona” il sistema capitalistico, cfr. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/09/appendice-al-post-precedente-per-chi.html,
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/11/economia-globale-ed-il-dilemma-di.html,
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/12/la-rovina-del-cash.html, http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/04/reminder-1-liberi-di-non.html,
http://associazione-federicoii.blogspot.it/2016/03/gia-da-tempo-siamo-nellassenza-del.html.
La crisi delle
borghesie dei paesi del Sud, in Italia del Sud, si vede da quel fenomeno noto
come “Terra dei fuochi”; infatti, lo stesso Wallerstein sosteneva che un’altra
emergenza sistemica erano i costi ecologici e che si sarebbe stati tentati di
smaltire i rifiuti pericolosi nei paesi del Sud … Di nuovo, in piccolo,
l’Italia riproduce il funzionamento sistemico globale …
Ma veniamo alle
prospettive, future, fermo restando la crisi sistemica in atto (rimando ai link
citati appena qui sopra), e che lo sviluppo - tutto già completamente
finanziario - seguito alla crisi degli Anni Novanta, non ha potuto che far
esplodere (considererei due date “clou”: il 2001 e il 2008, da cui non siamo
usciti): “In realtà, tutti questi problemi [sistemici] verrebbero probabilmente
inaspriti da un periodo di ripresa” (ivi, p. 272). E così è stato. Al momento, sono
ingovernabili. Tal momento è destinato a protrarsi indefinitamente,
richiedendo, la loro soluzione, che cambi la logica fondante del sistema, vale a dire l’accumulazione indefinita ed
“infinita” di capitale. Tale
accumulazione “indefinita”, che - per principio - deve essere senza un termine (cfr. http://associazione-federicoii.blogspot.it/2015/09/appendice-al-post-precedente-per-chi.html),
non si equivale, sic et simpliciter,
con l’economia di mercato ovvero di scambio: il capitalismo è qualcosa in più,
come parve davvero evidente a Braudel e com’è parso evidente a Wallerstein,
ovvero a chiunque studi tale sistema non come un “ideologismo” economico di
supposta “perfezione sociale”, ma per chiunque lo studi storicamente, come un sistema storico, che ha il suo inizio, la sua
fine e delle sue caratteristiche specifiche, peculiari ed uniche.
Dunque, fermo restando
la crisi sistemica, secondo Wallerstein - all’epoca - vi erano tre fattori di
crisi esplosiva, tre “opzioni”: quello che lui chiamava “Khomeini”, quello che
chiamava “Saddam Hussein” e quello che chiamava “boat people” (cfr. I. Wallerstein, Capitalismo storico e Civiltà capitalistica, Asterios Editore,
Trieste 2000, pp. 127-128). La prima opzione è quella dell’ “alterità radicale”
(ivi, p. 127), “non c’interessa quel che fa il centro noi siamo ‘i meglio’”,
per sintetizzare. E’ dell’anno scorso, il 2015, l’accordo fra con l’Iran,
ovvero il successo della strategia di “contenimento”, che però è costata molti
ma molti anni (dal 1978 della rivoluzione contro lo Shah in Iran). Qualche risultato,
ma molto dispendioso, ma davvero poco posto a confronto dei costi per abbattere
la seconda opzione, quella di Saddam Hussein (ibidem), che si potrebbe
sintetizzare come “primo attacco del Sud verso il Nord” da secoli, il monopolio
della forza per contenere e controllare il Sud del mondo essendo un tratto
decisivo e caratterizzante il sistema-mondo sin dal suo principio, secondo Wallerstein. In questa lotta, non
solo gli USA son riusciti a prevalere ad un costo elevatissimo e solo in parte,
ma, per di più, non facendo “tutto da
soli” com’era caratteristica loro nei momenti di maggior potenza (se ne rendano
conto tutti coloro che ancora vanno agitando un anti-americanismo “d’ antan”, “vintage”, magari a servizio di
rinnovate parodistiche ambizioni neo-sovietiche o neo-imperiali russe). Questo
si conferma in Afghanistan nel recente incontro di rilancio della NATO a
Varsavia, da poco conclusosi, dove gli USA accettano di rimanervi se e solo se
affiancati da tre altre nazioni, compresa l’Italia. Più chiaro di così … Vale
appena la pena di precisare che questi coinvolgimenti sono tali anche, se non
soprattutto, dal punto di vista finanziario, il che conferma l’ inevitabile declino USA, che verrà
acuito dalla vittoria di un Trump, per esempio.
Dunque con costi
altissimi - davvero terrificanti - il sistema-mondo ha dimostrato di saper
controbattere a queste sfide e sta, con tantissima difficoltà, ma pur tuttavia
sta facendolo, mettendosi assieme contro l’ “ISIL” che ha preso il posto del
crollo degli stati di parte del Medio Oriente. Ma non sta riuscendo a gestire
la terza opzione, quella che Wallerstein chiamava “boat people”. Questa diversa
dalle altre in questo: che le altre comunque seguivano la linea “storica”
centro>periferie, qui è l’inverso: le
periferie vanno verso il centro. E il centro tende a chiudersi, ovvero a
mostrare la sua debolezza, il che acuisce il problema. “Esiste infine l’opzione
‘boat people’, la spinta massiccia e implacabile degli aggregati domestici a
migrare illegalmente verso regioni più ricche, fuggire dal Sud verso il Nord. I
‘boat people’ possono essere rispediti indietro [quel che oggi è in grande
voga], ma con difficoltà; e altri seguiteranno
ad arrivare. Si può prevedere che nei prossimi venticinque-cinquanta anni un numero
enorme di persone riuscirà a migrare dal Sud verso il Nord. La duplice realtà
del divario nelle condizioni materiali e del divario demografico rende estremamente improbabile che una qualsiasi
politica statale nel Nord possa essere davvero efficace nel contrastare questo flusso” (ivi, p. 128, corsivi miei).
Ovviamente, tale spinta non fa che erodere il già pericolante welfare state post Seconda Guerra
Mondiale, con le note conseguenze, che stanno esplodendo sotto i nostri occhi e
sono state previste.
Ora i quadri d’uscita,
secondo Wallerstein, possibilità che si realizzeranno probabilmente dopo un’ inevitabile
fase di Caos nella quale solo da poco tempo siamo entrati pienamente. “Alla luce
della storia del sistema-mondo tre tipi di formule sociali appaiono plausibili. La prima è una sorta di neo-feudalesimo, che
riprodurrebbe in forma assai più equilibrata gli equilibri dell’epoca dei
tumulti [la nostra, cioè] - un mondo
di sovranità parcellizzate, di regioni considerevolmente più autarchiche, di
gerarchie locali [e di essa v’è sentore nel mondo attuale, molti vorrebbero
tornarci; nota mia]. Ciò potrebbe esser reso compatibile con il mantenimento (ma probabilmente non con l’ulteriore sviluppo) dell’attuale
e relativamente elevato livello di
tecnologia. L’ incessante accumulazione di capitale non potrà più
costituire la molla principale di questo sistema, ma quest’ultimo sarà
senza dubbio un sistema inegualitario.
A legittimarlo sarà forse un ritorno alla
fede nelle gerarchie naturali.
Una seconda formula
potrebbe essere una sorta di fascismo
democratico [gli appelli alla democratizzazione nei nostri tempi non son altro che la testa di ponte di
questo modello, così come sia Putin, al potere già da tempo, e Trump, che cerca
di giungere ad amministrare gli USA, sono i precursori attuali, anche se molto
deboli ancora, di questo “fascismo democratico”; nota mia]. Una formula di
questo tipo implicherà una divisione di
casta del mondo organizzato in due livelli, con lo strato superiore che
includerà forse un quinto della popolazione mondiale. All’interno di questo
strato potrebbe esservi un grado elevato
d’eguaglianza distributiva. All’interno di un gruppo così ampio e sulla
base di una comunità d’interessi di questo genere, gli individui potrebbero
disporre della forza necessaria a mantenere
l’altro ottanta per cento nella
condizione di un proletariato di lavoratori
del tutto innocuo. Il nuovo ordine
mondiale di Hitler ipotizzava una
visione di questo genere. Il progetto
fallì, ma a quel tempo definì se stesso
nei termini di uno strato superiore troppo ristretto [esattamente così come
capì Churchill, era il punto debole di un progetto che potrebbe aver avuto
successo e potrebbe ancora, solo che deve ristrutturare le sue basi: come Vladimir
W. Žirinovskij (e in parte V. Putin) ha studiato i limiti della politica aggressiva
di Hitler, capendo che agli attacchi debbono seguire delle pause più o meno
lunghe, allo stesso modo la ristrutturazione del progetto hitleriano, quello
sociale generale, non la gestione
della guerra, deve aprire alla costruzione di una casta superiore su basi molto
più ampie e meno restrittive di quell’epoca (ma il progetto può risorgere, se
già non lo sta facendo, cosa, quest’ultima, che il solo Aurobindo intuì
distintamente “in tempi non sospetti”, come suol dirsi); nota mia].
Una terza formula
potrebbe essere quella di un ordine mondiale ancor più radicale, estremamente decentralizzato ed estremamente egualitario. Tra le tre formule
quest’ultima appare come la più utopica, sebbene non possa essere del tutto
esclusa. Questo tipo di ordine mondiale è stato prefigurato in molte delle
riflessioni intellettuali dei secoli passati. La maggiore sofisticazione
politica e la maggiore competenza tecnologica di cui disponiamo lo rende realizzabile, ma nient’affatto certo. Esso richiederebbe l’accettazione di alcune
limitazioni reali alle spese per consumi. Ma
non significa solo la socializzazione della povertà, poiché in questo caso la
sua realizzazione sarebbe politicamente impossibile [insomma, non sarebbe la mera ripetizione dell’insuccesso
del socialismo “reale”, nota mia]” (ivi, p. 129, corsivi miei).
Un suggerimento, in
relazione a questo terzo modello, si trova in Andrea
A. Ianniello, Sul “Manifesto” del Futurismo, in AA.VV., Sulle orme del Futurismo, Giuseppe Vozza
Editore, Caserta-Casolla, 11 giugno 2009 nel 95° anniversario del Manifesto dell’architettura futurista,
pp. 17-21, in particolare p. 19, come una forma di mezzo tra la prima e la
terza formula, ma più spostato, come suggerimento, verso la terza formula.
Infatti, ogni formula storica, nel confrontarsi con la realtà, s’ibriderà con
altre, ma una verrà comunque a predominare.
Ma veniamo a come
termina Wallerstein appena dopo il lungo passo riportato.
“Che cosa penseremo
quando, nel 2050 o nel 2100, ci volgeremo indietro a guardare la civiltà capitalistica?
[…] Quale che sarà l’ opzione che sceglieremo per un nuovo
sistema, potremmo avvertire la necessità di screditare il sistema appena
superato, quello della civiltà capitalistica. Ne metteremmo in risalto le colpe
e ignoreremo ogni risultato positivo conseguito. Nel 3000 potremmo ricordarlo
come un affascinante esercizio nella storia dell’uomo […], ma probabilmente un momento storicamente importante della
lunghissima transizione verso un mondo più egualitario; o come una forma intrinsecamente instabile di sfruttamento dell’uomo, dopo la quale il mondo ha fatto ritorno
a forme più stabili. Sic transit gloria [corsivi di
Wallerstein]!” (I. Wallerstein, Capitalismo storico e Civiltà capitalistica,
cit., p. 130, corsivi miei). Direi la seconda, il capitalismo è intrinsecamente instabile. Dopo la quale
fase, occorre tornare a forme più stabili.
Ma è anche qualcosa in più: una “grande abbuffata”
(tra l’altro, dell’omonimo film si ricorda una recensione di P. P. Pasolini,
apparsa in “Cinema Nuovo” n.231, settembre-ottobre 1974) dello “sfruttamento dell’uomo” e la magnificazione delle distanze in termini di potere economico tra
gli uomini, con le inevitabili conseguenze politiche del caso e mascherate
dalle narrazioni della democratizzazione,
usando al tempo stesso una scienza moderna che produce necessariamente una tecnologica totalmente sottomessa
alle forze profonde sistemiche della
disparità.
Solo dopo una siffatta “grande abbuffata”,
dunque, sarà possibile il ritorno a forme più stabili.
Solo dopo aver portato
all’ eccesso questa tendenza - dopo
che Seth avrà fatto e compiuto tutto
il suo ciclo ed avrà tentato di monopolizzare praticamente tutto (“La fine del
valore d’uso”) - si potrà tornare a un sistema di stabilità, tuttavia necessariamente
in forme nuove.
ADDENDUM.
Dunque, il capitalismo non si equivale pienamente e semplicemente all’economia
di scambio e di mercato, vi è stata un’epoca di mercati senza capitalismo, di conseguenza.
Non bisogna farsi
giocare dalle parole.
Per esempio, l’uso del
termine servus glebae nel Medioevo
mascherava che il senso era ben diverso dall’analogo uso del termine nella fase
finale dell’Impero romano (cfr. K. Modzelewski,
La transizione dall’antichità al
feudalesimo, in Storia d’Italia
Annali 1 Dal feudalesimo al capitalismo,
Einaudi editore, Torino 1978, pp. 12-15). Nel tardo Impero esso era soggetto di
diritto pubblico, nel Medioevo di diritto privato. Non è solo un fatto formale,
ma sostanziale. I latifondisti erano
“sostituti d’imposta” per lo stato, che effettivamente regolava e percepiva le
rendite del lavoro della terra sotto forma di tasse. Nel Medioevo, invece, era
una relazione di diritto privato fra
signore e servo. Era nata la feudalità, che, dunque, non esisteva nella fase finale dell’Impero romano.